"Giorgio" Indice dei capitoli (torna alla pagina iniziale)

 

Introduzione

Broc (nipote)

Giuditta

La principessa

Ximena

Emma

Juanito

Don Isidoro

Broc (nonno)

Monsignore

Nadia

Oloferne

Giorgio

Ringrazio:

 

 

Broc (nipote) (torna all'indice)

Ho scelto una giornata di primo autunno. L’aria è fresca. Soltanto il rumore dei miei passi sulle foglie secche. Sugli alberi, le foglie ingiallite sono veramente poche, e tutte sui rami più bassi. Mi suona strano che, in un giorno così, il mio cervello si dia da fare per dedurre che “quindi” il tappeto di foglie marroni è il risultato dell’autunno scorso. Quanti autunni servono a fare un tappeto di foglie secche sotto ai faggi? Per quanti anni una foglia resterà a far parte della coperta morbida che ricopre la terra indurita, prima di sbriciolarsi e diventare altro?

Lo zaino ha il peso solito. Anche se vado per un sentiero che potrei percorrere a memoria, ho voluto che fosse come sempre, compresi l’altimetro, la bussola, il coltello, il binocolo, gli oggetti per le emergenze.

La lampada applicabile sulla testa. La scatola di metallo – il cui coperchio, a rovescio, può essere utile anche come specchio - contiene fiammiferi antivento, potassio, zucchero, un tubicino di gomma per l’acqua, ago e filo, un fischietto, un mozzicone di matita, carta, e forse qualcos’altro che non ricordo. La sigillai, contro l’umidità, con scotch pesante intorno ad una busta di plastica semirigida, e non l’ho mai più aperta. So con certezza, stavolta, che niente di tutto questo mi servirà. Pure, ho voluto che fosse come sempre.

Le gambe sono ancora forti. Il cuore gonfio di vita. L’occhio vigile. Godo del raggio che, diritto al suolo, interseca le foglie di questa stagione che, in gradazione, ne sfuma i colori.

Che cos’hanno di speciale una faggeta erta, e poi una conca morbida e larga, e a finire una pietraia – una madonnina nel punto più scoperto – e in cima 360 gradi di spazio? A quanti percorsi si addice questa descrizione? Che cosa ha reso questa montagna speciale per me? Perché l’ho scelta?

Mi sono svegliato all’ora solita. Ho spalancato la finestra alla brezza e al pettirosso sul prato, che ormai è di casa e non scappa più ai miei movimenti e rumori. Quanto vivono i pettirossi? Doveva essere qualche suo lontano antenato a fare il bagno nella vaschetta dell’acqua di Broc. Si scrive con la “c” finale, non kappa. Gli diedi lo stesso nome del cane preferito della principessa, veloce come il vento e tonto come un broccolo lesso. La principessa, una volta al mese, si divertiva a correre insieme con Broc su e giù, scartando di continuo, per i lunghi corridoi del palazzo. Poi si fermava, estraeva dalla tasca del largo vestito a fiori il pannolino mestruato e glielo lasciava annusare. Mentre Broc, inebriato, l’olfatto confuso da quella essenza penetrante, vi si accaniva, lei si nascondeva dietro una porta, ad assaporare l’affanno della ricerca disperata della padrona, i guaiti, le unghiate sul parquet lucido nelle frenate per smusare tutte le porte. Fino alla riconciliazione finale densa di abbracci e linguate avide e riconoscenti.

L’odore del caffè, che si mischia a quello del grasso sul cuoio degli scarponi e ai profumi del mattino, produce un insieme che non è diverso da quando – quanto tempo è passato? – mio padre mi svegliava per portarmi a caccia.

Ho voluto una giornata normale per questa occorrenza speciale. Nel silenzio totale del bosco la mia pisciata calda e vaporosa sfrigola, al contatto con la brina gelata.

Riprendo lento pede, senza affanno, per la salita ripida e sdrucciolosa, priva di orme. Si vede che è un po’ che nessuno ci viene. Me lo conferma un ramo sottile che si protende in orizzontale. Mi ci immagino, anche se il ramo è più piccolo della dimensione che, nella mia fantasia, dovrebbe avere per sostenerli, Cip e Ciop. Sopra al ramo ce n’è un altro quasi secco su cui traspare una ragnatela. I miei amici Cip e Ciop mi accompagnano saltellando e mi sento come Biancaneve in mezzo a un prato con tutti gli animaletti alleati che le zompettano intorno. Mi accorgo che è pari pari, quella che mi è venuta alla mente, l’immagine di una stampa a colori che la principessa aveva portato con sé dall’America. I particolari sono sfumati alla memoria, ma la vista d’insieme è ben definita. Un’altra stampa rappresentava Biancaneve che chiama i nani a pranzo, con Brontolo che protesta e Cucciolo che si frega le mani.

Qui è dove Broc, il bastardone bianco con le pezze nere, per la prima volta aveva dato segni evidenti di non farcela più. Riconosco il punto da quello che sembra un grosso ramo ed è invece il tronco principale che si è un po’ sradicato e poi si è completamente allungato sulla destra, per chi sale, e adesso sta tutto orizzontale. Le radici sono esposte all’aria. Nel punto di curvatura maggiore, dove il tronco, per la direzione che ha assunto, sembra diventare ramo, sono cresciuti due rami che vanno su diritti e che, per la posizione verticale, sembrano aspirare ad essere loro il tronco.

Io ammiro questo instabile equilibrio e mi chiedo se le varie parti dell’albero – radici, tronco, rami – in qualche modo comunicano tra di loro e scelgono, tra quelle possibili, una crescita compatibile con lo stato di bilanciamento raggiunto, e che si è conservato da anni.

E’ un punto ripido ma non ripidissimo, con tante foglie secche. Broc di solito mi precedeva e faceva almeno cinque volte la lunghezza del mio percorso, nel suo vagare avanti e indietro, finalmente libero di scorrazzare.

Quella volta restava regolarmente dietro di me, il che non mi preoccupava più di tanto, abituato al suo vagabondare sempre a portata di voce.

Prima di cominciare a guaire – tendeva ad evitarlo perché se ne vergognava - aveva raspato in un modo che, percependolo solo con l’udito, mi era sembrato che avesse catturato qualche animaletto o, se fosse stata la zona e la stagione e se ne fosse stato capace, avesse scovato qualche tartufo e lo stesse disseppellendo.

Non ce la faceva a salire.

Cercava, puntandosi, con le zampe davanti allargate, di non scivolare a tergo. Con quelle di dietro, però, raccolte sotto al corpo steso a terra, non aveva la forza sufficiente a darsi la spinta. Slittava, perciò, terrorizzato, all’indietro, sia che stesse fermo sia che cercasse di avanzare.

Il guaito iniziale passò ad un ululato disperato. La mia prima sensazione fu di divertimento. Sorrisi, come in quella gioia sottilmente crudele nel vedere l’uomo dal fisico possente o la donna dall’eleganza luminosa che rovinano a terra per un banale inciampo.

Scesi fino a lui, lo imbracai con la corda e lo accompagnai piano piano finché non ebbe recuperato. Nel seguito della salita, anche in punti molto ripidi, non ebbe bisogno di assistenza e riprese il suo scorrere avanti e indietro, rassicurandomi sulla natura episodica della defaillance.

Il ritorno fu un bel po’ più duro, per Broc.

Su un costone di sterpi e sassi, al mio richiamo perché si era allontanato troppo verso l’alto, schizzò in giù nella mia direzione, mi superò di gran carriera e si tuffò dritto verso lo strapiombo, che dalla mia posizione non potevo vedere fino in fondo. Scomparve per qualche minuto alla vista. Stavolta mi divertii solo a raccontarlo nei giorni successivi, e lì sul posto il groppo alla gola mi lasciò soltanto quando, poco dopo, come se niente fosse, risbucò ai miei richiami sempre più affannosi da dietro un cespuglio, arrancando in salita, perdendo colpi all’indietro e guaendo con gli occhi densi di terrore e tuttavia felici di avermi ritrovato: l’energia prodotta dalla paura era ancora sufficiente a fargli superare il dolore dell’artrosi avanzata – scoprii poi – che gli aveva impedito di esercitare la pressione necessaria a frenare in discesa.

Da qui in poi fu un calvario. Arrivati più o meno al punto ripido con le foglie secche, dove si era impuntato in salita e dove in discesa eravamo soliti divertirci a scivolare come sulla sabbia morbida, che avesse riconosciuto il punto o che fosse assolutamente sfinito, Broc si buttò per terra, la cassa toracica che si alzava su e giù e l’occhione all’aria che mi guardava implorante.

Pur essendo un punto ripido mi fermai. Mi sedetti vicino a lui in modo da puntellarlo con il corpo. Gli misi intorno la mia giacca a vento e stetti così un po’ a farlo riposare, carezzandogli la testa. Sembrava essersi addormentato. Stava per fare buio e bisognava tornare. Lo scossi, lo chiamai, ma non si voleva più alzare. Cercai di caricarmelo sul collo come una pecora ma questo lo spaventava e infatti si divincolava e cadeva giù a terra e si allontanava da quella nuova minaccia, tra la confusione le difficoltà la fatica.

Completammo in qualche modo quella discesa.

Broc non venne più con me in montagna.

Qualche mese appresso, dopo un periodo di vani tentativi di cura, cominciò a trascinare la gamba – sì, voglio scrivere la gamba – posteriore sinistra. Diventò incontinente. La mattina non riusciva ad alzarsi da solo dalla cuccia, sicché non lo trovavo più mugolante nell’andirivieni dell’attesa della prima uscita, ma sempre più di frequente sporco dei suoi escrementi e con l’aria colpevole e avvilita.

Presto non fu più in grado di salire le scale né di scenderle. Qualche volta, affinché riuscisse a bere, dovevo farlo sdraiare, sollevargli la testa e tenergliela alzata mentre sotto gli appoggiavo la ciotola, su cui Broc passava qualche stanco colpo di lingua. Sempre più spesso la ciotola era piena delle piume del pettirosso, che la aveva ormai adottata come la propria piscina preferita. Ci sguazzava senza più nessun timore, e Broc lo guardava tranquillo e questo era sconvolgente, per chi lo aveva conosciuto come l’essere più accanito nella difesa ad ogni costo e verso qualsiasi vivente – dai gatti agli umani alle lucertole… - del proprio territorio.

Un giorno lo caricai sul sedile anteriore – mi guardò con aria interrogativa e felice per la violazione della regola numero uno – della macchina e guidai fino all’inizio del sentiero. Se ne stette accoccolato, senza cercare - come avrebbe fatto al solito, e raspando ad ogni curva o frenata - di controllare vigile lo spazio circostante. Con cautela ci addentrammo nel bosco lateralmente, quasi in piano, fino ad arrivare ad un piccolo sperone che dava sulla parte bassa della vallata. Broc si accucciò ansimante, io mi sedetti vicino. Tirai fuori dallo zaino piccolo un paio di belle salcicce, di quelle che il veterinario aveva assolutamente proibito. Con la mozzetta – un coltello a punta tronca, adatto agli innesti - che era stata di papà, le tagliai a misura di bocconi e le diedi a Broc che, con l’espressione sorridente, sì, sorridente, se le divorò incredulo. Versai nella ciotola il contenuto della mia borraccia. Broc diede solo un paio di linguate svogliate e si riaccoccolò a ciambella. Il sonnifero fece effetto in qualche minuto. Dalla giugulare, come tante volte avevo fatto, anni e anni prima, con i maiali, gli infilai nel cuore il coltello lungo, stretto e affilato. Non emise alcun suono e neppure si mosse. La mia mano era ancora ferma. Restai qualche minuto ad accarezzargli la testa finché, con un piccolo fremito, anche il respiro cessò, insieme con la fuoriuscita del sangue. Volli coprirlo di foglie e frasche, in una simulazione di sepoltura.

Da allora, è la prima volta che torno su questo percorso.

Dove i faggi sono più fitti il sole, ancora basso, non penetra, e il vento fresco mi induce un lieve brivido sotto alla pelle, in contrasto con il calore interno indotto dal movimento del salire.

Il vulcano sulle Ande. Eravamo saliti di notte, in un blu che non è dicibile, accompagnati dal rombo sommesso dei crateri che scuoteva la terra grigia di sabbia e lavagna, screziata di zolfo.

A quattromila metri, di notte, anche d’estate, fa freddo. Molto freddo.

La terra, vicino ai crateri, è calda. D’inverno la neve non attacca, lì.

La sentii come una richiesta impellente del mio corpo: mi spogliai completamente, tremante di freddo, sotto gli occhi esterrefatti dei miei amici, e mi scaldai rotolandomi nella sabbia, dove restai steso a braccia e gambe larghe.

Sullo sfondo, l’oceano, impregnato della luce della luna.

Fui, per qualche felice momento, parte di qualcosa di grande. Come lo sono adesso a salire questo sentiero di rocce bianche, con intarsi di muschio tra spacchi di secoli, foglie secche e qualche germoglio di faggio. Gli uccelli non cantano.

L’apparire del cielo al di sopra degli alberi mi coglie di sorpresa. Sembrava che la salita non finisse più. Invece, dietro una curva, è in vista, per la prima volta dall’inizio, la cima della montagna. Mi sembra lontanissima. Dietro la curva successiva, dalla parte opposta – il sentiero in questo punto è a tornanti - è comparsa, annunciata dal cielo, la cima della cresta sulla quale sto salendo. Si è proposta con un azzurro intenso, in contrasto con i rami. Qui - sono abbastanza più in alto dell’inizio del percorso - cominciano a esserci più foglie gialle. E’ singolare osservare che dove i rami sono più radi è più celeste, e dove i rami sono più scuri, più in lontananza, più fitti, viceversa diventa quasi blu. Eppure, è lo stesso cielo.

Ancora un tratto quasi pianeggiante di bosco, sulla destra. Finito il bosco, la cima sarà a vista fino all’arrivo.

Questo è l’unico tratto pianeggiante del percorso.

Mio figlio. Se avessi potuto conoscerlo, oggi sarei meno libero di fare questa scelta. Dunque, sono qui. I miei polmoni si allargano. Chissà come potrei apparire a qualcuno che mi incontrasse? Mi piacerebbe essere descritto come un vecchio, vigoroso, con gli occhi intelligenti. Magari, invece, potrei essere osservato come un vecchietto affannato che ma dove va all’età sua per le montagne guarda gli occhi appannati avrà pure la cataratta…… E questa è la sana varietà del mondo.

Anzi, i rapporti tra le persone hanno ragione di essere proprio per lo scarto esistente tra la percezione che ciascuno ha di sé, e la percezione che gli altri ne hanno. Da questo punto di vista, la nostra vita può essere descritta come l’affanno, strutturalmente inane, di far corrispondere l’immagine che abbiamo di noi stessi con quella che ne hanno gli altri. Tanto che quando ci sembra di aver trovato lo specchio che meglio ci riflette, allora quello specchio chiamiamo amicizia, o amore.

E’ anche perché da tempo questo mi è stato chiaro, che sono qui, oggi. “Un vecchio vigoroso con gli occhi intelligenti”: sì, così mi piace. Gli scarponi sdruciti negli anni si sono adattati ai miei piedi. La suola consunta, dove non è rimasto quasi niente carrarmato, in certi punti fa poca presa, ma questo è compensato dalla maggiore sensibilità del piede che mi fa riconoscere le forme delle rocce e mi fa procedere leggero e spedito, qui, dove la pendenza è lieve.

Il bosco finisce in una grande conca verde. Lo stazzo circolare al margine degli ultimi alberi, per i cavalli che pascolano, si sta di nuovo riempendo d’acqua dopo la siccità estiva.

Mi fermo, dopo due ore buone di salita nel fitto, ad assaporare il cielo aperto, per quanto ancora circoscritto dai contorni della conca. La cima è a vista sulla destra. Respiro forte. Sì, non avrò ripensamenti. E di nuovo, in una giornata così, la mia mente si attarda sulla considerazione tutta intellettuale che “non avere ripensamenti” è esattamente un ripensamento. Sono sempre stato affascinato dai paradossi, piccoli e grandi. Qualche volta me ne vergogno un po’.

La vergogna. “Una sola donna ebrea ha gettato la vergogna sulla casa del re Nabuccodonosor”. Che straordinario testo, la Bibbia. Era stato un uomo ad accoltellarmi. Era la Giuditta di Klimt che mi guardava nel mio letto di ospedale. Una riproduzione chissà come finita in quella stanza singola che il principe aveva preteso mi fosse assegnata.

La mia vita avrebbe avuto tutto un altro corso senza quella coltellata. Ma no, ma che pensiero insensato, attribuire a un qualche specifico evento, per quanto significativo, drammatico, importante, la responsabilità dell’andamento di una vita! In verità, la nostra vita può avere corsi diversi ad ogni preciso istante e per ogni minimo fatto, nessuno dei quali è insignificante. In questo preciso istante l’apparire di un corvo, o di un’upupa, o di un’allodola, o di un passero, ciascuno potrebbe richiamarmi alla memoria eventi diversi che potrebbero indurmi a confermare o modificare o rovesciare la mia scelta; un’improvvisa tempesta o una storta dolorosa potrebbero impedirmi di salire in vetta; potrei inavvertitamente disturbare cuccioli di cinghiale ed essere spaventato dall’attacco dalla madre; potrei essere raggiunto da una carovana caciarante di boy scout e scapparne; potrei decidere di fermarmi qui e finalmente costruirmi quella capanna di frasche - per ripararmi nella notte – che ho sempre sognato ma non realizzato, per non essere mai riuscito a perdermi abbastanza da non ritrovare la strada del ritorno prima di notte; potrei riconoscere un volto amato nelle pieghe del muschio sulla pietra o nella forma di una nuvola ed essere sopraffatto dalla nostalgia; potrei rubare un cavallo e lanciarlo al galoppo e confondere l’odore del cielo limpido con quello del mare e sognare di cavalcare sulla spiaggia con la principessa, come tanto tempo fa; potrei incontrare un orso e battermi con lui, facendo vincere la rabbia sulla paura, come non fui capace in Sud America. Tutti i miei sensi, tutti i miei sentimenti sono all’erta. E’ un buon momento. E’ il momento giusto. E’ ora di riprendere l’ascesa.

Il terreno adesso è morbido di suo, anche senza foglie secche l’erba del pascolo è accogliente con il mio passo. Si fa ripido. Finita la faggeta, querce rade occupano il fianco che sto risalendo. Lentamente, molto lentamente. Da qui in cima sarà sempre più ripido. Allo scoperto il sole si sente. Mi fermo. Scarico lo zaino a terra. Dalla tasca laterale estraggo la borraccia. Bevo lunghi sorsi. Mi sfilo la giacca a vento e la ripongo nello zaino. Avverto la fatica nel ricaricarlo sulla schiena. La fluidità del movimento - tante volte ripetuto - aiuta la crescente rigidità delle ossa e la calante elasticità dei muscoli. Dentro, mi sento leggero, vigoroso.

Da dove comincia il tratto petroso si apre la vista intorno. Ora, non vi sono più alberi fino in cima. E’ sempre un’emozione nuova, che scalda dentro, quella che l’occhio trasmette alla pelle, già sollecitata dall’aria frizzante e dal sole.

C’è un altro percorso possibile, alternativo alla faggeta, per arrivare fino a qui. Viene dal Santuario, e passa vicino al posto delle fragole. Lo scoprii sbagliando strada. Ne indovinai l’odore prima di vederle. Una distesa sconfinata su una spalletta scoscesa. Sembra incredibile come l’occhio percepisca, da un certo istante, tutto il rosso punteggiante là dove, solo un momento prima, era tutto e solo sfumature di verde e marrone. E, non appena l’attenzione scema, scompaiono alla vista. Fui felice come un bambino. Ore di raccolta faticosa per poche manciate che spiaccicavo impiastrandomi tutto il viso per riempire bene la bocca e far sciogliere i piccoli frutti ammassati schiacciandoli con la lingua contro il palato, fino a confondere le narici su quale fosse l’odore che persisteva fuori, sul terreno, e quale l’aroma prodotto nell’interno del corpo, dalle fragole che entravano a contatto con la saliva e le mucose delle guance, le gengive, le labbra, fino alla gola.

Mi fermo. A prendere fiato. A recuperare tutto intero il ricordo del sapore delle fragole. Chiudo gli occhi. E’ ancora dolorosa, la memoria. Fa caldo. Mi levo il cappello. Non ho voglia di riporlo nello zaino, così me lo infilo a forza sotto a una bretella.

La cima mi ricorda la forma del muso di uno squalo martello. Ci sono due percorsi possibili per raggiungerla.

Uno è più diretto: un sentiero stretto sulla mezza cresta sassosa, a sinistra. Quando piove è sdruccioloso e infido. Il verde che lo accompagna di lato, e sembra rassicurante, rende ingannevole il dirupo sottostante. Una statuetta di madonna, in un incavo di roccia, ammonisce e incoraggia.

L’altro, sulla destra, è a percorso libero, sull’ultima pendenza mista di erba zollosa e pietre. Quando c’è nebbia può portare facilmente fuori strada, verso la controcima che sta nella direzione esattamente opposta.

E’ facile perdersi, in montagna. E’ facile perdersi anche seguendo rigorosamente il sentiero. Non c’è mai un solo sentiero. Mi è sempre piaciuto perdermi solo un po’. Trovare la direzione anche fuori della rotta stabilita. Più che il sentiero, sono i punti di riferimento a fare da guida. Non è diverso nella vita.

Scelgo il sentiero della madonnina.

Il principe raccontò che fu la madonna a salvarlo - non io - quella volta che il dottore voleva sparargli per via della falsa murena.  Non era credente, quindi chissà come gli venne in mente. Io non ricordo i particolari. Fu tutto così rapido che ancora mi meraviglio di come fossi stato capace di intervenire con tale risolutiva prontezza. Ma forse fui guidato proprio dalla madonna, non si può mai dire.

L’ultimo tratto così duro spezza le gambe. La prima volta che ci salii dovetti rinunciare a pochi metri dalla vetta. Senza conoscere bene il percorso, avrei rischiato l’oscurità, nel tempo necessario per il ritorno. In montagna, anche su montarozzi infine comodi come questo - poco meno di 2.000 metri - bisogna saper rinunciare anche molto vicino alla meta. Non è diverso, nella vita. Stavolta non avrei bisogno di rinunciare, anche se fosse vicino l’imbrunire. Questa, è un’ascesa speciale, questa.

Passo vicino alla statuina che raffigura la madonna, e forse per la prima volta la guardo in faccia: né ammonitrice né incoraggiante. Piuttosto, ha un’espressione tra il triste e l’orgoglioso. Mi è più simpatica, così. Le sorrido e la saluto. Ansimo. Il cuore pompa esageratamente. Devo fermarmi, se non voglio che poi sia troppo difficile controllare la tachicardia.

Mi guardo intorno. Da qui il dirupo è proprio brutto. Non è per niente una buona posizione per stazionare. Volgo lo sguardo verso l’alto. Per fortuna so qual è l’esatta distanza della vetta, che da qui non si vede più. Il cuore ha ripreso il battito normalmente accelerato. Il respiro segue bene. Posso riprendere. Da adesso, senza soste fino a su.

Finalmente. La solita croce, stavolta di ferro e cemento, deturpa la cima. Poso lo zaino. Intorno è come sempre. Ogni volta l’immensità mi si riflette dentro, mettendo in movimento tutte le possibili, e sempre insufficienti, scale di misura emotive. Per qualcuno – più fortunato - è parte della propria natura. Io ho imparato, col tempo, a rinunciare – in questi momenti – all’opera di misurazione, confronto, classificazione, catalogazione delle distanze, degli oggetti, delle relazioni, cui il mio cervello spontaneamente si dedicherebbe, e a far entrare in me i colori, gli odori, il vento.

Dieci passi sotto alla punta ci sono due rocce che formano un riparo naturale. Ci stendo in mezzo la giacca a vento, sdrucita, dai polsi sbocconcellati, eppure in gamba. Una buona giacca. Mi slaccio gli scarponi. Sfilo i calzettoni. Le dita dei piedi, grate, giocano a suonare il pianoforte sulla roccia. Il maglione lo dispongo sopra allo zaino. No,  prima devo aprire lo zaino e tirar fuori la busta con il mangiare, e il coltello. Ho conservato la mozzetta di mio padre. Sì, lo zaino potrà servire da poggiatesta, con il maglione sopra. Faccio scivolare le bretelle dalle spalle verso le braccia. Sbottono i pantaloni – sono di resistente stoffa militare – e li tiro giù. Li sfilo tirandoli dai piedi. Slaccio i bottoni della camicia di flanella country. Sono stato incerto fino all’ultimo se portarmi musica. Alla fine ho deciso per il no: sarebbe stata troppo difficile la scelta di un solo brano. Sbottono i polsini. La camicia è zuppa di sudore. La stendo, fermandola con un paio di sassi, sulla roccia più alta. Lo stesso faccio con la canottiera di lana. Le mutande. Sono nudo. Aria fresca e sole caldo sul mio corpo. Mi stendo nel tepore comodo del giaciglio che mi sono preparato. Le mani intrecciate sotto alla testa. Sono pronto. Il sole mi bacia il cazzo e lo fa diventare barzotto. Appagamento e pienezza, senza nemmeno la voglia di gridarli, tanto fuoriescono da ogni pezzo di pelle. Le nuvole, lassù, cambiano forma di continuo. Rinuncio a fermare l’immagine del cielo. Sì, è un buon momento. Il momento giusto. Tiro fuori le salcicce essiccate, di quelle che il dottore ha assolutamente proibito, e con la mozzetta preparo bocconi della dimensione giusta per me.


Giuditta (torna all'indice)

Mi guarda con occhi socchiusi, come da una stanchezza infinita. Le sopracciglia alte. Naso diritto perfetto. In bocca un’espressione intonata agli occhi.

La fitta al fianco riprende. Viene a intervalli. Quando è più forte e insopportabile smetto di star sveglio.

“Devo restare sveglio” mi sono detto dal primo istante, ancora in piedi, incredulo.

Prima che mi potessi rendere conto appieno, erano state la bocca aperta d’orrore del principe, in un’espressione che mai si sarebbe potuta immaginare sul viso di un uomo che aveva fatto della controllata compostezza la sua parola d’ordine, e le mani sul viso - a coprirne gli occhi disperati - della principessa, a dare testimonianza dell’accaduto. E il subitaneo silenzio, tutto d’intorno.

La donna – è una donna – è gentile e crudele. Potrebbe aver appena fatto l’amore. Il suo collo è ricoperto d’oro, confuso con lo sfondo tanto che, a guardar bene, la testa potrebbe essere distaccata dal resto del corpo…..

Crollato a terra furono le torce disposte tutte intorno alla facciata ad illuminare il mio sangue che si mischiava al fango manipolato di fresco dalle ruote delle carrozze e dagli zoccoli dei cavalli. Ebbi il tempo di riflettere su quale meraviglioso colore un pittore avrebbe potuto trarre da quell’impasto di sangue e fango, se solo fosse stato capace di cogliere insieme i bagliori di quelle luci ondeggianti.

E’ qui, il risultato di quell’alchimia. Nel colore della veste trasparente ornata d’oro che ricopre quel seno accennato, illuminato dal socchiudersi del labbro superiore, a scoprire denti di madreperla.

Alzare e abbassare le palpebre è l’unico movimento che mi concedo, come a tenere dentro tutte le energie residue, nell’intervallo – la cui lunghezza non posso misurare – tra una fitta e l’altra. Danno il ritmo del riposo e dell’allerta, una volta richiamandomi alla coscienza e un’altra ributtandomi nell’assenza. Ho trovato il modo di lasciarmi andare alla cadenza delle fitte, mantenendo così una precaria continuità vitale, né resistendo al bisogno di requie dal dolore (ma anzi assecondandolo e così ottenendo di essere presente seppure in una soglia bassa di coscienza), né lasciandomi andare al riposo incosciente e pacificatore (non è ancora tempo) quando il dolore sembra assopirsi.

Il braccio destro della donna è flesso ad angolo retto, come a separare orizzontalmente il seno sinistro scoperto – piccolo e perfetto – dall’ombelico. La piegatura del polso sottile, che accompagna la mano poggiata su di una testa scura, è tutto il movimento che posso percepire, in questa dimensione di confine tra l’irrealtà, l’abisso, la sofferenza.

“Giorgio, sempre Giorgio……” erano state le sole parole, pronunciate a testa bassa, come un urlo bofonchiato, da Goffredo, lo stalliere, prima di infilarmi nel fianco la lama del suo serramanico. Con la coda dell’occhio lo avevo visto avvicinarsi di lato, mentre il principe mi presentava – evento inusuale - ai suoi ospiti.

Erano arrivati dalla città in carrozza, per la festa della fine della stagione della caccia alla volpe. Sulla strada statale, da un chilometro prima del cancello che portava alla tenuta e alla villa, avevo fatto disporre bracieri ai due lati della strada. Accoglievo all’ingresso gli invitati del principe e della principessa.

Oggi, se voleste ritrovare quei luoghi, dovreste cercare, tra un poligono di tiro e un aeroporto militare, una strada sterrata che si addentra verso il mare, tra due file di eucalipti. Potreste anche riscoprire, dietro un dosso, se fosse una mattina tersa, l’incanto dell’apparire delle onde schiumose, o della tavola piatta e omogenea. Se voleste percorrere la spiaggia, che è rimasta dura e nera di ferro, e sbrilluccicante di cristalli di madreperle, esaltati dal trovarsi su quella base scura, arrivereste a quella che chiamano oggi “oasi”, gestita da un gruppo ecologista, con la sua casetta di legno tra alberi di frutto piantati di recente, con gli stagni in cui il giusto equilibrio tra acqua dolce e salata è verificato e ripristinato ogni anno, prima dell’inverno, per mantenere l’habitat delle tante specie di uccelli acquatici che hanno ripreso a trascorrere qui i loro inverni, indisturbati. Se, infine, vi regalaste – come qualche volta, poi, ho fatto - la possibilità di venirci di giorno feriale, quando non sono previste visite guidate di famigliole e di scolaresche accompagnate da insegnanti dall’animo verde, potreste osservarli - germani reali, folaghe, papere e paperotti di ogni genere - da dietro i casotti di legno predisposti per quello che oggi si chiama birdwatching.

La mano è poggiata sulla testa scura con affetto, senso di possesso straniato, eppure distanza. L’ombelico e i due capezzoli – uno scoperto e l’altro che traspare dalla veste leggera, entrambi poggiati su seni piccoli e diritti – formano un triangolo di perfezione. Un altro triangolo è segnato, ai vertici, dalla bocca e dagli occhi. E ancora mi richiamano un triangolo rovesciato, le sopracciglia che confluiscono nel naso dalla forma compiuta.

La scala davanti alla villa scendeva tondeggiante a triangolo, con l’apice superiore tronco.

Dal cancello di ingresso alla tenuta li scortavo, a cavallo, verso la villa. Li precedevo al galoppo – aveva piovuto fino a poco prima e non rischiavo quindi di essere scortese sollevando polvere – fino al primo, poi al secondo, poi al terzo cancello, dando ogni volta l’ordine di aprirli per il tempo occorrente al passaggio e di richiuderli per evitare che il bestiame uscisse dai propri confini. Frenavo davanti alla scala, dove il principe e la principessa aspettavano i loro ospiti, salutavo con un cenno della mano e al galoppo tornavo indietro, scavalcando i cancelli con il mio baio preferito, ad accogliere i prossimi.

Ero esaltato dall’aria sul viso e dalla rassicurante certezza che avevo fatto e stavo facendo bene il mio lavoro.

La testa scura è soltanto la metà destra della testa. In verità più che una testa è l’occhio destro – sbarrato - incorniciato da una massa di barba e capelli neri.

Mi dico che forse sono vicino alla morte, se ho di questi miraggi. Il pensiero mi lascia tranquillo. Non mi rattrista né spaventa. Ne sono sorpreso. Sono giovane e forte. Ho avuto e ho una vita ricca, piena, come posso non aver paura di morire?

Questo momento, che tra un istante sarà sepolto in qualche angolo buio e dimenticato, mi accompagnerà come sostrato ignoto alla coscienza, come amico anonimo e fedele e, recuperato da qualche provvidenziale sinapsi, tornerà nei momenti giusti in superficie. Come un’assicurazione contro il dolore.

 La veste bianca al mio capezzale fatica a tenere la pezzetta di lino bagnata di acqua e aceto sulla mia fronte che si agita.

Ero a terra. Nessun dolore, ma dalla bocca aperta non entrava aria e gli occhi non trovavano punti di appoggio. Furono le mie mani a scovare la protesi indesiderata che spuntava dal fianco. Fecero l’errore di sfilare il coltello. Uscì come dal burro tiepido pronto per la pasta frolla. L’aria riprese sì ad occupare il palato la lingua le gengive e a scendere per la gola giù giù fino ai polmoni, ma allo stesso tempo il sangue cominciò a fiottare irrefrenabile, dalla fenditura liberata dal manico. Prima di chiudere gli occhi, tra gli “oddio oddio” intorno, alla mente sopraggiunse la memoria – impertinente e del tutto fuori luogo – dell’odore stuzzicante del panunto.

Era il momento più atteso e goloso del tempo in cui andavo a caccia con mio padre. Più eccitante della caccia stessa. A metà mattinata – cioè verso le nove, nove e mezza, ché si partiva presto – papà trovava un posto adatto, appoggiava il tascapane, scaricava – sempre – il fucile e riponeva le due cartucce calibro dodici nella cartuccera. Mi dava il via affinché raccogliessi la legna necessaria. Si fermava dove non mi sarebbe stato troppo difficile, ma nemmeno dove ci fossero fascine troppo facili. Io - avevo otto, nove anni - schizzavo in giro, infervorato e tutto compreso nel fare bene il mio compito, e scovavo e disponevo rami, legnetti, legnettini, fili secchi tutti in fila da quello più fino al più grosso. Papà sistemava alcuni grossi sassi a formare una caldaia chiusa da tre lati e aperta sopra e davanti. Ci appallottolava dentro un paio dei fogli di giornale che, alla partenza, erano serviti a coprirsi il petto dal freddo, e mi insegnava a disporre, a capanna indiana, prima i legnetti più piccoli e poi via via quelli più grandi. Gli ultimi, i più grossi, potevano essere sistemati sopra, a traverso sui sassi. Il massimo era quando faceva accendere a me il fuoco, con i grossi fiammiferi da cucina. Papà era orgoglioso di me le volte che riuscivo, con un solo fiammifero, ad accendere il giornale in più punti, cominciando dalla parte posteriore della caldaia, per non scottarmi, e via via dando fuoco ai lembi più esterni. Davo fuoco ad almeno due punti diversi. Se andava molto bene arrivavo a quattro, prima che il fiammifero mi scottasse le dita. Mentre cercavo la legna, lui tagliava un paio di rami verdi a forcina, li scortecciava e faceva loro la punta. Con la mozzetta - l’affilatissimo coltello da innesto: non portava mai coltelli a punta - apriva in due le salcicce per lungo e le infilava all’estremità dei rami. Tagliava lunghe fette di pane casareccio, bianco e sciapo. Infilava a terra lo spiedo. Se necessario, lo puntellava alla base con un paio di pietre, e lo disponeva in modo che poggiasse sulla parte esterna della caldaia e le salcicce fossero un mezzo metro sopra al fuoco. Quando la salciccia sfrigolava di grasso, recuperava lo spiedo e premeva la salciccia sulla fetta di pane. Ripeteva l’operazione girando ogni volta la salciccia. Nel momento in cui il pane era tutto impregnato e da bianco era diventato color unto, la salciccia era di cottura perfetta. Quello era il panunto.

Il settimanale, nel disegno del paginone iniziale, mi presentò come “Il centauro di Maccarese”. In primo piano era raffigurato il principe che, con gesto imperioso ed autorevole, fermava il treno proveniente dal nord  - dalle scintille sulle rotaie sembrava di sentir stridere i freni – e imponeva che fossi trasportato nella maniera più rapida all’ospedale. Attorno a me, steso a terra in una pozza di sangue, le pie nobildonne erano rappresentate come intorno a Cristo deposto. Tra di loro, non era riconoscibile la principessa. Più tardi, questa assenza mi sembrò significativa. In una nuvoletta sullo sfondo, a significare l’evento precedente quello in primo piano, stavo a cavallo – la fantasia del disegnatore, per evidenti motivi cromatici, lo aveva voluto bianco e con la lunga criniera al vento – e galoppavo a fianco del feroce Goffredo che, alle mie spalle, con l‘aria truce a ambigua del Giuda, stava sfilando di soppiatto, da sotto alla giacca, la lama assassina.

Seppi, poi, che il disegno non era molto lontano dalla realtà. Per fortuna era presente, tra gli ospiti, il dottore al quale, tempo addietro, avevo impedito di rovinarsi per la vita. Sentita la prognosi (“se non si opera al più presto l’emorragia sarà mortale”) dopo che il medico aveva provvisoriamente tamponato la ferita, il principe aveva inviato quattro butteri a cavallo con le torce ad aspettare il treno dietro al curvone dove è costretto a rallentare, con l’ordine di farlo fermare ad ogni costo e di aspettare che la carrozza dove mi avevano deposto sopraggiungesse. E così andò. Dalla stazione un’altra carrozza, avvertita via telegrafo, mi portò all’ospedale dove, mancando il tempo per la ricerca di un donatore di sangue compatibile, mi furono trasfusi sei litri e mezzo di acqua salata.

Mi fu asportata la milza.

La palpebra, in verità, è abbassata. Io però so che, sotto, l’occhio è sbarrato. La sua fissità ha reso eterni e senza pace una furia selvaggia e un odio incontenibile.

L’atteggiamento del principe nei miei confronti, quando tornai a casa guarito, era molto cambiato. Da amichevole e cordiale, fino a farmi dimenticare, talvolta, la differenza di rango, divenne cortese e distaccato. Pensoso. Profondamente amaro nei miei confronti, come verso una delusione più che un tradimento, e rassegnato a non scostare la tenda che avrebbe potuto mostrare ciò che egli, manifestamente, non voleva vedere.


 

La principessa (torna all'indice)

Una buona amica, che è solita scartabellare tra negozietti di antiquariato e vecchie stampe, qualche tempo fa scovò - e mi regalò - un libretto intitolato “Oriolo fox hounds”.

Ha la copertina rossa venata di muffetta rugginosa. Al centro uno stemma che sovrasta un cerchio, a sua volta attraversato da una volpe stilizzata. Carta patinata. Pagine incorniciate da un elegante bordino rosso. Qualche foto.

Editore Prof. P. Maglione. Roma.

Stampato dalla Tipografia E. Pinci. Roma. Via Mario de’ Fiori.

Nella prima pagina, una dedica a penna: “Caro Tom. Lascia i concorsi e fai [incomprensibile]. Ti avvicinerai più allo 'sport’. Questo ti augura il tuo aff.mo…..”. Mi è rimasta la curiosità di sapere se “Tom” fosse un americano che in quel periodo soggiornava in Italia, o un appellativo amichevole per un nostrano “Tommaso”. Quanto ai “concorsi”, è verosimile che fossero i concorsi ippici, ai quali l’estensore della dedica preferisce evidentemente la caccia alla volpe.

Eh sì, proprio così: la caccia alla volpe.

La caccia alla volpe a due passi dalla città, chi l’avrebbe detto?

Master era il Conte Carlo Dentice di Fiore.

Huntman, Jim Brown. Senz’altro titolo: il nome anglosassone rappresentando, innegabilmente, sufficiente qualificazione.

Nel canile adiacente il castello del principe Altieri, in Oriolo Romano, erano allevate 26 coppie di cani “puro sangue” (le virgolette sono nel testo originario). La Segreteria dell’Associazione è a Roma, a Villa Madama. Farnesina.

Nelle due pagine di aderenti sottoscrittori conto cinque Principi, sette Marchesi, tre Baroni, otto Conti, un Duca.

Due Onorevoli, un Senatore, un Console, due Commendatori, un Cavaliere, un Colonnello, un Maggiore.

Infine, dodici tra signori e signore, signorine, Mr e Mrs.

Gli aderenti sottoscrittori sono esposti in galante e democratico ordine alfabetico. Prima le sette donne e poi gli uomini, come si conviene ad un contesto sportivo. Tra i nomi troviamo Aldobrandini, Altieri, Colonna, Graziani, Odescalchi, Perrone, Piccolomini, di Robilant….

C’ero anch’io. Anche se, ovviamente, non facevo parte dei soci, e quindi il mio nome non è direttamente citato nel libro dalla copertina rossa.

Sto, tuttavia, in una delle foto. Le zampe del cavallo in venti centimetri d’acqua sulfurea. Tra le betulle. Sollevato sulle staffe quanto basta ad assumere una posizione eretta per puntare con sicurezza il fucile. La mano sinistra a sorreggerlo, la destra sul grilletto. Me la scattò la principessa. Non erano in molti, all’epoca, a possedere una macchina fotografica.

La principessa viene dall’America. Le piace cavalcare. Indossa i copri-gamba di cuoio dei butteri su un paio di jeans tagliati a mezza coscia, tra lo scandalizzato sconcerto e il sollazzo – inesprimibile, per il rispetto dovuto al rango – dei butteri e dei contadini e la paziente tolleranza del principe.

E’ alta. Il tronco minuto, il seno minuscolo, le gambe forti e lunghe. Ogni volta che scende da cavallo, per un instante - prima che, toccata terra, si ricomponga e, con noncuranza, da dietro strattoni all’ingiù i jeans - la principessa offre, alla vista di chi per avventura, o per calcolata scelta, stia in posizione adatta, i solchi che segnano il confine delle cosce con i glutei. Le natiche della principessa sono due mezzi cocomeri di rotondità giottesca. Il culo della principessa è una delle prove dell’esistenza di Dio.

Gli “Oriolo fox hounds”, come si conviene a cani importati dagli Stati Uniti di America, cacciano la volpe alla maniera americana, non inglese.

Sostiene Mr Harry W. Smith, firmatario della prefazione del prezioso volumetto, che le volpi inglesi non faticano molto – data la vicinanza dei centri abitati – a procurarsi cibo, e quindi, poco temprate dalle asprezze della vita selvaggia, sono una preda relativamente facile per i ben addestrati cani inglesi. E, sottintende perfidamente, per gli schizzinosi gentiluomini e le sussiegose gentildonne del Sussex.

Mentre in Inghilterra tutto avviene a vista d’occhio, in America sono udito e voce a dover essere ben esercitati. A segnalare qui il passaggio della volpe, là ad indicare il percorso migliore ai compagni di battuta, è la capacità di gridare – che certamente in Inghilterra sarebbe considerata poco fine – che conta. E la sapienza di riconoscere, dal modo con cui il cane abbaia, se ha stanato la volpe, o l’ha persa, o la sta inseguendo, o la sta azzannando dopo averla catturata. L’abilità a capire dal grado e dal tipo dello scalpiccio nel bosco se i cani si stanno avvicinando alla volpe o se quella li sta distanziando.

In America si uccidono molte meno volpi che in Inghilterra. Mr Harry W. Smith lo afferma con orgoglio.

I cani di Oriolo sono il prodotto di ritorno di una selezione durissima. Gli antenati dei cani americani del canile del principe, infatti, sono i cani che i nobili europei esportarono in America, dove la caccia alle volpi rosse in territori selvaggi, che congiungono paludi acquitrinose e montagne impervie coperte da boschi impenetrabili, ha prodotto una razza dal meglio di tutte le contrade.

Anche la volpe rossa fu importata, in America. Animale davvero selvaggio, capace di adattarsi a qualsiasi ambiente. La cugina inglese non deve fare più di un paio di chilometri per procurarsi cibo, mentre in America può essere costretta a percorrerne anche venti sulla neve, per sfamare i piccoli che custodisce nella tana.

Testati su corse a scatti continui di anche quattro cinque ore, questi cani hanno sviluppato un’eccellente resistenza e un olfatto acutissimo. Hanno muscoli forti, struttura ossea leggera ed energie nervose in quantità. Sono relativamente piccoli. I cani pesanti vanno sostituiti, se non si vuole che il loro cuore scoppi.

Non c’è una regola precisa, non c’è un appuntamento stabilito a priori. Quando il vento mi sembra spirare nella giusta direzione ne informo il principe e lui, in accordo con la principessa, si occupa di fare il giro di chiamate che convoca la caccia per la mattina successiva.

Il gruppo di cacciatori effettivi è, pertanto, sempre diverso, a seconda delle voglie, più che degli impegni, dei potenziali partecipanti.

Si caccia dalla fine di novembre ai primi di aprile. Come un inverno allungato ai due estremi, dalle ultime foglie rosse dei faggi fino alle ginestre fiorite in mucchi straripanti.

Cinque, sei volte in un mese.

In tutta la stagione vengono uccise una quindicina di volpi.

I cani, di stazza medio piccola, sono pezzati bianco e marrone-bracchetto. A pelo liscio. Orecchie morbide da setter irlandese. Muso sveglio e tartufo all’erta.

Il principe partecipa raramente, senza mai mostrare, né le poche volte che cavalca nel gruppo né – le più frequenti – in cui saluta i partecipanti restandosene al castello, il sottile disprezzo, che più volte ho avvertito con chiarezza da uno sguardo, un tono, un gesto, verso coloro che sono tuttavia tramite per il divertimento - e quindi il benessere - della principessa. Che è ciò a cui il principe tiene maggiormente.

Mi ha incaricato di starle vicino. Lei è giovane, piena di ardore e entusiasmo e vitalità inesausta. La passione che mette in ogni attività che intraprende è tale che una specie di uragano turbolento soffia sull’oggetto della passione stessa finché tutto il fuoco non è bruciato, le ceneri disperse e una nuova smania non è all’orizzonte.

Mi sono fatto l’idea che si siano conosciuti in America proprio durante una battuta di queste, e che il principe abbia importato i cani e organizzato qui la caccia alla volpe per amore della principessa. Che l’abbia fatto pur conoscendone già l’indole. La quale, peraltro, solo superficialmente potrebbe essere definita volubile. Piuttosto, insieme conseguenza e preda di una forza vitale straripante e di un’intelligenza lucida ai limiti del tagliente. Priva, tuttavia, del beneficio della capacità di discernere i confini, propri e altrui. Come tale, destinata a esprimersi costantemente fino e oltre la linea estrema, sempre pronta a traboccare, come una lingua di fiamma che ad ogni soffio, e anche in mancanza di vento, cambia forma e direzione. Condannata dalla sua stessa incomprimibile tensione verso l’alto a deviare e ricadere e ripartire e risalire e oscillare continuamente. Senza potersi acquietare.

Gli sfregi, non infrequenti, da filo spinato non visto, le lussazioni da caduta per il salto mal calcolato di un muretto, sono i segni che accompagneranno, nelle fresche sere d’estate, il racconto delle gesta invernali. La caccia alla volpe, infatti, può essere pericolosa anche per i cavalieri e le amazzoni, oltre che per le volpi. Per questo il principe mi chiede di occuparmi della principessa, affinché il suo inesauribile slancio non la porti a correre rischi imprevedibili

La volpe viene fiutata, stanata e inseguita dai cani. Sono loro ad ucciderla, le volte che la acchiappano. La partecipazione dei cacciatori, in un certo senso, consiste nel fare il tifo per i cani, e talvolta nel tagliare la corsa della volpe per chiuderle strade dove per i cani sarebbe difficile raggiungerla.

Il divertimento sta nell’avere un’occasione, costruita come non fine a se stessa, di galoppare con i cavalli ben strigliati. Mentre incita il proprio cavallo, e assapora il rumore sordo e rimbombante degli zoccoli, taluno può rivivere, altri solo immaginare o sognare, le cariche al galoppo contro l’artiglieria nemica, o lo scontro all’arma bianca al di fuori delle palestre di scherma, e gustare l’odore del sangue senza la diretta responsabilità di averlo versato.

Di buon’ora, dopo una colazione leggera, il soffio del corno dà il via allo “sport”. Ci disponiamo in gruppo. Cavalchiamo riuniti fino a quando non si sciolgono i cani.

Nelle giornate terse e secche di gennaio, con la tramontana che infuria su una terra asciutta e priva di odori, la caccia è difficile. Anche nelle occasioni in cui una volpe viene stanata non è raro che i cani ne perdano le tracce, costringendo i cavalieri e le amazzoni a portare indietro null’altro che guance arrossate e occhi lividi.

In una di queste giornate di tramontana sferzante, dopo ore di improduttive ricerche, i cani scovano una bella volpe nel Tombolato di Maccarese e la portano lentamente, perdendone spesso le tracce, fino al Tombolato di Palidoro, che viene attraversato tutto. I cavalieri seguono i cani nei brevi scatti. Li assistono e girano loro intorno impazienti, nei lunghi momenti di pausa in cui la muta – come un branco di cinghiali grufolanti - fiuta a lungo inutilmente alla ricerca della traccia. Frenano con le briglie i cavalli che, avendo solo assaporato abbozzi di galoppo, sono smaniosi e scalpitanti.

L’hanno persa. Per oggi è finita.

La principessa, furiosa, dimentica dei suoi obblighi di ospite, incita il suo baio in direzione del mare, noncurante del lungo seminato da attraversare e del rischio per i garretti del cavallo – e quindi della propria incolumità - sulle zolle gelate. L’incertezza tra la cura degli invitati e la tutela della principessa è breve. La seguo. La affianco appena un poco dietro. Sembra non accorgersi di me. A pochi metri dal mare, con il vento rinforzato, la sabbia asciuttissima, galoppa furiosamente e sprona il suo cavallo parlandogli all’orecchio, senza mai usare gli speroni. Quello fende l'aria e si allunga morbido come se fosse privo di peso. E’ uno spettacolo di cui, pur essendo presente col mio sudore e il mio fiato e le mie braccia e le mie gambe, sono più testimone che partecipante, tale è la forza che sprigiona da quella cavalcata, da quell’insieme armonioso e potente di movimenti di braccia e ritmo di gambe e odore di criniera. Fatico a starle dietro. Costeggia, senza una sola incertezza di percorso, gli infidi acquitrini di Macchia tonda. Rallenta e si ferma in vista dei ruderi del castello di Santa Severa. Carezza la testa del cavallo, gli parla ancora all’orecchio, contro vento, e resta ad ansare sull’orlo della schiuma sulle sabbie nere. Mi guarda con l’aria di chi ha sempre contato sul fatto che io ci fossi. Sta piangendo di una gioia selvaggia, quale mai più ho visto.

Le giornate migliori sono quelle dopo una breve pioggia: il terreno è morbido senza arrivare ad essere pesante, e gli zoccoli del cavalli ricevono elasticità dalle zolle erbose senza affondarvi, come invece avviene dopo più giorni di pioggia.

Questa è una giornata speciale. Alla fine saranno tre le volpi inseguite, anche se una sola uccisa. Alcuni cacciatori di Oriolo erano stati incaricati di far uscire al pulito, di mattino presto, le volpi.

La prima, scovata quasi subito dai cani in un fosso vicino alla stazione, incalzata con corti e interrotti galoppi fino ai Terzi, passa il fosso dietro alle spallette di Valluterano. Nel momento in cui sta per essere raggiunta, due colpi di fucile, che non fermano l’animale, fermano la muta, spaventata da questo inatteso e “villano” intervento. La volpe ha così modo di interrarsi.

La principessa è seccata per la perdita della preda ma contenta per il già lungo galoppo quando la giornata è appena cominciata, senza aver dovuto subire l’impazienza dell’attesa delle lunghe ricerche dei cani nel fiutare l’animale.

Poco dopo un’altra, cacciata dai cani lungo il fosso, passa di macchia in macchia, si dirige nei seminati dell’Anguillara dove è inseguita a vista dai cavalieri che si danno sulla voce incitando i cani. Quella scarta di continuo da una parte e dall’altra, costringendo i cavalieri e le amazzoni a bruschi cambi di direzione, che producono variazioni nell’ordine degli inseguitori. La principessa, tuttavia, è sempre tra i primissimi, e se resta indietro non tarda a riprendere una posizione avanzata. Io faccio del mio meglio per starle vicino. Dopo un lungo galoppo la volpe raggiunge le rocce del Sasso. Dalla più alta si gira ad osservare i cani che sopraggiungono latranti. Il terrore del pelo ritto è tale che sembra volerne incutere alla muta che, per un attimo, si ferma, come interdetta. E’ un soffio, e la volpe trova una fessura nei crepacci delle rocce dove si imbuca e si perde, finché siamo costretti ad abbandonarla.

I cavalieri sono soddisfatti del buono “sport”, come lo chiamano, e sarebbero anche sazi della giornata, ma la principessa, eccitata, insiste affinché si continui.

Le tracce dell’ultima volpe sono scovate dai cani, che la perdono, e poi la ritrovano e l’inseguono fino ai seminati dei quarti di Bracciano. Cacciata dai cani fuori dalla macchia di Martignano si dirige al lago, ne segue la sponda sinistra traversando velocissima la costa destra della macchia e le valli della Bofa. Tagliata dai cani dei pecorari si perde per lungo tempo nei seminati. Ritrovata nel fosso viene cacciata due volte al pulito finché traversa tutta la tenuta del Casalone e s’imbuca nella impraticabile macchia delle Muratelle.

Dato il folto, l’estensione della macchia, l’ora tarda, propongo di sospendere la caccia.

Lo sguardo della principessa è fulminante.

Non può smentirmi pubblicamente. Io non posso rimangiarmi quello che ho detto.

Schizzando di botto al pulito e dirigendosi verso la solfatara, è la volpe a togliermi dall’imbarazzo. Qualcuno, pago della giornata, sta già allontanandosi. Siamo comunque una decina a riprendere l’inseguimento, con nuovo vigore per la ripresa della caccia, che pensavamo ormai impossibile.

E’ una vera palude di zolfo, dove si potrebbe sprofondare e nessuna traccia resterebbe. In verità, non si è mai sentito di alcuno che abbia avuto di queste disavventure, ma questa terra porosa e spugnosa appare tale che potrebbe aprirsi in ogni momento. Come si apre, a piccoli fori, a far uscire bolle bianco latte. Qualcuno respira là sotto. E’ terribile continuare a respirare da sottoterra. E’ così stupidamente inutile! Ci cresce, inusuale a questa latitudine, un bosco di betulle. Anche il terreno tramezzo agli alberi è infido. Dove sembrano svettare ciuffi solidi su solide zolle erbose, a volte, ma non sempre – a rendere l’incertezza coerente – si affonda fino alla caviglia e un olezzo di uovo sodo punge. In realtà è più solida di quanto sembri. Al riemergere di ogni passo che affonda nella fanghiglia bianchiccia appaiono piccole bolle di sospiri bianco latte, che subito si ritirano in minuscoli buchi i quali, a loro volta, si richiudono sul nulla, lasciando un piano compatto, e morbido, e viscido.

Si potrebbe dire un paesaggio lunare, se potessimo immaginare acqua e vegetazione sulla luna.

Cacciata da vicino dai cani ritorna sui suoi passi, riattraversa tutta la macchia di betulle per due volte finché, forzata e sfinita, si arrampica su di un albero. Gli uomini scendono da cavallo e qualcuno sale dal tronco ai rami, avvicinandola. La volpe spicca un salto incredibile verso la zona paludosa e viene nuovamente inseguita.

Attraversa ancora la macchia da una parte e dall’altra, incalzata da cani e cavalieri. Esausta, terrorizzata, cerca di nuovo – innaturalmente - di salvarsi su un altro albero. Per salire abbastanza deve arrivare ai rami più sottili, dove resta aggrappata precariamente con le zampette, oscillando già solo per il suo proprio peso. Uno dei cavalieri si arrampica per scuotere i rami e farla cadere ed è allora che la principessa urla “non è giusto!” e mi stringe forte il braccio con la mano destra. Non arriva a farmi male, ma solo perché il velluto di fustagno della giacca è ben spesso.

Non ho il tempo di sorprendermi che la volpe, ricacciata di nuovo e inseguita dai cani si imbuca in una tana di porcospino. I cani arruffano tutt’intorno e, allargata la tana, stanno per prenderla, quando quella balza verso gli scopeti e, di fosso in fosso, nelle marrane, scappa verso una folta spinosa. Lì sarebbe imprendibile ma, sfinita e incalzata sempre di più da vicino dai cani, nel risalire il terzo fosso scivola indietro, viene presa e uccisa.

Sul limitare del bosco, a un passo dalla salvezza.

La principessa rifiuta gli onori della testa e della coda che le vengono attribuiti per il suo galoppo audace. Ringrazia, cortese e distaccata al limite dello sprezzo, e chiede agli ospiti di precederla alla villa. A me fa cenno di restare. Vuole rientrare nella solfatara. So che se l’ha deciso non c’è modo di convincerla che non è una buona idea addentrarci in quel terreno infido, a quest’ora vicina all’imbrunire, che calerà di botto. Arriviamo allo straordinario boschetto di betulle. Alte e magre. Nere con corteccia chiazzata di bianco. In una base di terra nera spolverata del biancore dello zolfo. Il soffione centrale zampilla e sbuffa ad almeno due metri e mezzo tre di altezza. Una serie di gorgoglii sommessi, di vario tono e intensità, fanno da rumore di sfondo. La principessa scende da cavallo, faticosamente, tra gli alberi.

-         Vieni Giorgio.

La principessa dice “Giorgio”, con tutte e due le “ò” chiuse. 

-         Principessa….?

Scendo anch’io. Con la schiena alla betulla è piegata di lato, si comprime con la mano destra il fianco sinistro.

-         Mi fa tanto male ….Aiutami Giorgio……

Mi avvicino. Si raddrizza un po’, si sbottona la giubba. Prende aria.

-         Aiutami, prova tu se senti qualcosa qui, è un dolore come se dovesse esserci uno squarcio ma non trovo niente…….

-         …Ma che cosa è successo, ha sbattuto? Forse ha perso il ritmo del galoppo e s’è ‘ncarcata da una parte?

-         Non lo so! Non lo so! Smettila di parlare e aiutami!

Lei è così. Può passare dall’aspetto di cucciolo indifeso al tono imperioso e prepotente, e questo non ha a che fare con l’essere la moglie del principe, ma con la sua propria natura. Io non so che cosa fare. Mi sento molto stupido e imbranato.

-         Ecco, così….?

Le poggio la mano sul punto che mi indica preda di fitte lancinanti.

-         Grazie. Così va meglio, grazie Giorgio.

Il tono è di nuovo piano. Si raddrizza. Appoggia anche la testa al tronco. Chiude gli occhi e fa un respiro pieno. Io le sono di fronte, un po’ di lato, con la manona destra sul suo fianco sinistro, sulla camicia di flanella sotto alla giubba aperta e subito sopra alla cintura dei pantaloni. Dire che sono imbarazzato non rende affatto il sudore freddo che mi scende per la schiena.

-         Bene, principessa, meno male che è stato solo un momento brutto. Succede. Una fitta improvvisa e poi più niente.

Bene, ho ripreso il tono normale. Do un colpetto di commiato al fianco e faccio per sfilare la mano.

-         Aspetta.

Sento ansimare un animale selvaggio, puzzolente di odore acido. La mano, piccola e ossuta, che si poggia sulla mia, trema. I seni minuscoli sembrano straripare nel movimento che accompagna il respiro affannato. Sempre ad occhi chiusi avvicina la bocca alla mia. Mi rendo conto che, a dispetto della emancipazione americana, non sa baciare. Una inusuale tenerezza mi travolge e le appoggio una mano sulla nuca. E’ piccola e leggermente a punta. E’ singolare come nei momenti in cui le emozioni sono così violente la mia attenzione si concentri su particolari di questo genere. Che cosa sto facendo? E’ una pazzia, semplicemente. Mi stacco. Dalla sua bocca, dall’albero, dalla solfatara, da questo momento impossibile, che non può esserci stato. La principessa si rassetta la giubba. Il primo bottone ingarbuglia le mani che faticano a trovare l’asola. Il secondo la centra con violenza. Gli ultimi entrano con impassibile distacco. Risalgo a cavallo e aspetto che faccia altrettanto. Mi dirigo lentamente sulla strada del ritorno. Senza parlare. Senza guardarci.

Torniamo alla solfatara in primavera e in estate, in esplorazione dei luoghi dove si svolgeranno le cacce della prossima stagione. Abbiamo fatto un patto non dichiarato: arrivati al bosco di betulle, scendiamo da cavallo, stendo una coperta e ci sdraiamo vicini. Io esploro con delicatezza il suo corpo quasi adolescenziale, e lei evita ogni tentativo di altro contatto diretto. Funziona per quasi una stagione. Passo le ore a tenerle i piedi tra le mani, tirando le dita ad una ad una, scavando la pianta con i pollici, circoscrivendo per bene ciascuno dei tendini del dorso. La principessa, stesa sulla schiena, ad occhi chiusi, asseconda senza resistenza i tremiti diffusi nel resto del corpo. Quando diventa troppo si gira di schiena, ed è l’avvertimento per l’inizio del massaggio rilassante sulle spalle. Minuti e minuti che sembrano ore, con le mie mani ruvide che scorrono dalla punta dell’omero al collo, tra deviazioni verso i gomiti e le scapole. Lungo la spina dorsale, contando con i pollici leggeri tutte le singole vertebre. E tra i capelli fini e poco folti, a massaggiare con le punte di tutti i polpastrelli e a stringere il cuoio capelluto tra il pollice e le altre quattro dita. Il momento in cui emette un sospiro che sembra non finire mai e scosta le gambe tra di loro è l’avviso per l’ultima fase dell’esplorazione. Dalla caviglia su su per tutta la gamba, con movimenti circolari e lenti. Le due mani sulla stessa gamba, a impastare il pane in orizzontale. Le due mani una all’esterno e una all’interno, forti e delicate in verticale. Le due mani una per gamba. Le nocche a insistere sulla parte interna del ginocchio. Il limite che mi sono dato è il solco del coscino, come la principessa chiama la parte delicata dell’interno della coscia, vicina all’attaccatura ai glutei.

Funziona per quasi tutta la stagione. Arrivato al punto in cui, se andassi avanti, comincerei ad ansimare in un modo che, se non mi interrompessi, diventerebbe presto incontrollato, do un colpetto – con un taglio che pretenderebbe essere amicale - sui glutei, ed è il segnale che torniamo.

Risaliamo a cavallo, senza guardarci, in un silenzio cupo. Non mi è sempre facile seguirla nel galoppo sfrenato che imprime all’andatura, superando senza alcuna precauzione siepi e fili spinati, affondando i garretti nei fossi, schivando rami bassi solo all’ultimo istante utile.

Fine settembre. La stagione delle esplorazioni sta per finire. Quella della caccia sta per ricominciare. Tra due settimane ci sarà l’annuale festa d’inizio, a cui gli invitati arriveranno in carrozza, e io li scorterò al galoppo alla villa. La mia mano esita un attimo più del solito sul collo. Con la mano destra lei scosta i capelli e se li raccoglie sulla nuca. Me lo offre scoperto. Tra pollice e indice stringo il muscolo che va dalla nuca all’omero. Lei lo tende. Sono ancora nei patti non scritti e non detti. Sono ancora dentro, mi dico. Poggio le labbra su quel tendine guizzante. Sono fuori. Sono oltre. No, se mi limito a questo sono ancora dentro. E’ il tendine che va dalla mandibola alla clavicola. Lo tengo con la punta delle labbra. Con dolcezza. Un brivido. Più forte. Solo un sospiro più lungo. Sento che comincio ad avere il respiro affannato. Stacco le mani e la bocca. Sono ancora piegato sul suo collo. Mi sposto di poco e le mordo con violenza il lobo dell’orecchio. Sanguina. Senza un fiato.

Si gira e guarda stupita le goccioline rosse che le sono rimaste sulle dita, corse istintivamente a proteggere l’orecchio. Ora è stesa di schiena, appoggiata ai gomiti, i capelli stravolti, l’aria spossata. Io, in ginocchio al suo fianco. Confuso, colpevole, vicino a scoppiare.

Il raggiungimento di questa posizione – lei sdraiata di schiena, sui gomiti, io in ginocchio al suo fianco - sempre senza parola alcuna, e senza più guardarci in viso, è come la spia del via libera.

Con tutte e due le mani, esperte e precise nei movimenti tanto quanto concitate, mi strappa fuori dai pantaloni un bisonte in gabbia possente e schiumante, e lo stringe con tutte le forze, tanto che la punta, da paonazza, imbianca, per il blocco dell’afflusso del sangue, mentre pronuncia una specie di litania della quale non ho mai capito il senso, se non che, forse, gli aveva assegnato un nome proprio:

-         Oh doctor Arthur! Oh my doctor Arthur! Oh my sweet doctor Arthur!

Le sfilo le mutande. Sono fradice. Cosce e culo sono bagnati. Bagnati, non solo umidi, degli umori fluidi e densi emessi dalla fica esasperata. Allargo con le dita i peli arricciati e la vedo palpitare come una cozza appena dischiusa. Scosto le labbra esterne ed è lì, completamente aperta come una voragine infinita. La lecco tutta intorno, a lungo, in punta di saliva. Vuole che io stia ad angolo retto rispetto all’asse del suo corpo. Dice proprio “novanta gradi, Giorgio, please, piccolo piccolo…” e vuole dire “piano piano”. Le cresce, sotto alla mia lingua, un bottoncino di carne duro, che si erge in lotta furibonda con i limiti della quantità di muscolo e sangue e nervo disponibile, e sembra voler schizzare fuori dalla mucosa che lo contiene. Quando allenta la presa su di me sbarra gli occhi in alto. Allora – è l’unico momento in cui questo avviene - ricambio lo sguardo, e lei mi scosta la bocca, mi tira a sé e mi infila sicura il cazzo in quella che è ormai diventata un gorgo caldo, cremoso, e spalancato dall’attesa. Io la aiuto ad assumere una posizione di accoglienza passando le mani sotto al culo tondo, sodo, compatto, elastico, pieno. Una delle prove dell’esistenza di dio. Finalmente gli occhi stralunati si chiudono in un sospiro di beatitudine e, mentre le scivolo dentro, salmodia “bubu….”, “bubu Giorgio….”, “bubu-bubu-bubu…..”.

Giorgio è con le “o” chiuse.

Viene quasi subito.

Sempre prima di me.

Mi sento molto potente, da questi suoi orgasmi così immediati.

Sono molto giovane. E quello che mi scoppia dentro non è capace di distinguere tra intimità e sesso. Nella mia confusione, lo scambio per amore.

A volte viene in silenzio totale.

Altre volte digrignando sussurrevole “scopami, bravo, dai, mancami di rispetto, scopami, dai…”. A volte tra una serie di “bubu… bubu-bubu-bubu….bubu-Giorgio….”

Con le “o” chiuse.


Ximena (torna all'indice)

Provo piacere ancora oggi a guardare i paesi i laghi le montagne il mare le isole le nuvole che scorrono dal finestrino.

Ho dentro un sollievo del tutto incongruo rispetto alla ragione di questo viaggio a Parigi.

Sono in magnifique class. Le poltrone hanno la movimentazione elettrica dello schienale reclinabile. Il poggiapiedi estensibile, sempre con movimentazione elettrica, permette anche alla mia stazza di allungare le gambe, di alzarmi senza disturbare il vicino, quasi di sdraiarmi comodo, eventualmente usufruendo della regolazione - meccanica, questa - del supporto lombare, se volessi dormire. A occhio avrò poco meno di un metro e mezzo dalla poltrona davanti. Piccoli lussi che oggi posso permettermi. Che differenza dalla terza classe del viaggio in nave verso un indeterminato sudamerica. Ah, dimenticavo: al bracciolo, l’apparecchio satellitare corded. Vuol dire “con il filo”. A differenza di cordless, che vuol dire “senza filo”.

La pubblicazione che magnifica (appunto) le poltrone e le altre meraviglie, propone piatti della tradizione culinaria modernamente rivisitata, quali linguine all’astice in salsa di porcini della Garfagnana e pomodorini di Sorrento su letto di rucola selvaggia.

Va apprezzato il mix linguistico. Sentitele in bocca, le “linguine all’astice”, se non sono fluide e mantecate come si conviene. E i “porcini della Garfagnana”, non si appoggiano sulla lingua già con l’odore di terra e foglie secche di castagno? I “pomodorini di Sorrento” danno il giusto tocco di freschezza e mandolino, e il “letto di rucola” – “rucola”: non la sentite rotolare sul palato? - offre finalmente il giusto ambiente, rotondo e accogliente, che rilassa l’ardito accostamento.  Per finire, il tocco di classe è “selvaggia”, a restituire tutto il fascino dell’imprevisto, del potenziale, della sorpresa.

Tutte le portate sono servite con mise on place al tavolino. Vassoio di plastica a scomparti dove primo secondi contorni dolce frutta sono disposti in rettangolini ordinati. Bicchiere di plastica. Formaggio di plastica. Forchette e coltello di plastica. Il cucchiaino sembra di metallo. Ma forse è plastica metallizzata. La ciliegia, rigorosamente unica, è rossa come non ne esistono. Ce ne fosse più una con il buchetto per il vermetto. L’insalata è verde e bianca splendente nonostante l’asfissia del cellophane che la avvolge. Il roast beef sa di morto. Il biscotto ha un buon sapore superficiale con un retrogusto di strutto stantio che resta nel palato. Il caffè – manco a dirlo – una broda infame. Si può addolcirlo rompendo una bustina di zucchero raffinato, o di zucchero di canna, o di dolcificante a base di saccarosio, la scelta non manca. Si può anche farlo diventare un cappuccino rompendo la bustina del latte in polvere e versandovi la polvere bianca. Si può mescolare – lo zucchero raffinato oppure quello di canna oppure il dolcificante al saccarosio ed eventualmente il latte in polvere – con l’apposita stanghetta di plastica trasparente.

-         Hostess per favore posso avere una carbonara?

No, no, non lo dico davvero. Figuriamoci. Air France. Va già bene che non mi abbiano inflitto quei terribili formaggi tutti uguali cremosi con la crosta rugosa, il cui sapore cambia secondo il tipo di scarpe che si sono portate, tanto sono puzzolenti di piede rancido.

L’Evian ha un buon sapore. Ci mancherebbe altro. In Italia, che ha la migliore acqua del mondo che scorra dai rubinetti delle case, c’è il maggior consumo mondiale pro-capite di acque minerali. Tra cui acque francesi come Evian. Ci sono ristoranti che propongono la carta delle acque oltre a quella dei vini. Si comincia a trovare anche la carta degli oli. A quando la carta dei sali? Preferisce il sale delle saline di Marsala, signore, sa, quelle di fronte all’isola di Mozia, oppure questo più grezzo e dal sapore – se mi permette – più “ignorante”, della Normandia? Oppure vuole provare il sale del Baltico? E’ particolarmente raro per la difficoltà a farlo essiccare al sole, data la latitudine …. sì signore …. o no signore, la prego, noi trattiamo soltanto sali ad essiccazione solare ……. a giorni avremo il sale del mar Morto, sembra che ci siano stati problemi di radioattività e capirà …. noi serviamo solo alimenti selezionatissimi…. sì, certo, la ringrazio signore, lei fa un’ottima scelta …..

Stiamo passando sopra l’isola d’Elba. Ho rinunciato a riconoscere le altre isole, so che più o meno si tratta di Montecristo, forse Giannutri (o Giannutri è più a sud?), Pianosa ….. bho!  Adesso lo chiedo a una delle hostess. Sono le sole, le hostess, che sembrano aver mantenuto l’obbligo sociale delle calze anche quando fa caldo. E nemmeno permettono loro di portare quelle calze a rete così inutili e così attraenti. Chissà se le calze le fornisce la compagnia o dà solo uno standard e poi le hostess possono decidere magari di scegliere calze autoreggenti per mantenere fresche almeno le cosce ….. adesso glielo chiedo se sono collant o autoreggenti o se porta il reggicalze …. mi giro verso destra e la hostess ha già colto il mio movimento ed è volta verso di me interrogativa quanto basta a mostrare sollecitudine ma non oltre la sfera della discrezione più assoluta.

-         Prego!

-         Monsieur?

-         A che ora si arriva?

Potrei benissimo chiederlo in francese ma mi piace pretendere che su un aereo Roma Parigi, in magnifique class, le hostess conoscano l’italiano.

-         A dix heure e demi, monsieur.

Stronza. Mi ha capito benissimo e saprebbe anche dirlo in italiano ma ha voluto dirlo in francese.

-         Thank’s very much, baby.

Biascicato come le si conviene, in modo che le resti almeno il dubbio di un insulto tra i denti.

-         Le auguro un buon soggiorno a Parigi, monsieur.

Scatto di professionalità. Mi fanno impazzire, le erre arrotate da quei nasini. E’ rimasto un desiderio inappagato, non avendo mai conosciuto una donna francese che mi interessasse, sentirmi dire parole d’amore all’orecchio con quel tono strascicato e sensuale. Sembra che le donne americane, invece, amino l’inglese pronunciato dagli italiani con accento romano. Sarebbe interessante uno studio di come i differenti accenti rendano una lingua diversamente attraente ad orecchie avvezze ad altri suoni. Chissà se qualcuno lo ha fatto.

Si fa chiamare Baby. Ha il cappellaccio di sempre a tesa larga e morbida. Ne ha una serie tutti eguali, appesi come pipistrelli all’attaccapanni al centro dell’ingresso di casa. La maglietta sbrindellata collabora con la chitarra a nascondere il ventre gonfio di troppi bicchieri di pessimo bianco fatto passare per vino dei castelli dagli osti di Trastevere. La barba morbida e incolta, i capelli lunghi verso il grigio raccolti all’indietro. Gli occhi densi di furia dietro stonati occhialetti pariolini.

“One, two …..”

“One, two, tree, four...”

Baby batte il piede verso il pubblico, lo sguardo verso il tastierista. Partono il basso, la batteria. Niente è come l’attacco, quando mi comincia a scorrere nelle vene. Il mio corpo si fa felicemente e dolorosamente invadere da scariche che lo percorrono dall’alto in basso.

Meglio ad occhi chiusi, a pugni chiusi, a labbra chiuse.

Vicino a me Elvira è già decollata: si è alzata dove ha trovato lo spazio per dare sì e no venti centimetri tra un piede e l’altro e le sue cosce dritte e muscolose guizzano sotto al velluto leggero attillato vibrando dalla punta del piede alla vita, come solo qualche nero può. E’ come se tutta l’energia che le scorre dentro andasse a finire in ognuna delle punte dei ricci che la sovrastano e che lei sbatte a sinistra a destra e rotea intorno e impegna allo spasimo tutto lo spazio disponibile in quella massa di corpi accalcati accaldati stretti su piccole e scomode e fumose sedie di legno.

Io preferisco ad occhi chiusi, a pugni chiusi, a labbra chiuse.

Non ci sono immagini da visualizzare. Pura energia. La musica ha un’energia sua propria, diversa da ogni altra. Immisurabile. Baby inserisce il distorsore, lo tira verso l’alto e i suoni si dirigono verso la soglia tagliente del rumore. Mi sento schiacciato sul muro, all’angolo della panca dove sono ammucchiati i nostri cappotti giacche di cuoio spolverini casacche peruviane piumoni impermeabili, con lo stomaco aperto dai colpi del basso e il cervello reso inerme dagli attacchi delle decine di migliaia di hertz che dalle corde della Martin lo trafiggono come fili di rame scomposti e arroventati e lo lasciano tuttavia illeso e sopraffatto.

I ricci di Elvira si sono intonati al movimento dei lisci e lunghi capelli biondi di una faccia dalle fattezze incredibilmente indie verso il rosso mattone, spuntata da dietro l’angolo. Vanno allo stesso tempo e i loro corpi all’unisono sono uno spettacolo. Come se non avessero mai fatto altro che danzare insieme da fermo, braccia lungo il corpo, movimento dei polsi orario antiorario orario antiorario a portare le braccia a contenere di lato i seni, braccia ad alucce e braccia in alto in controtempo al bacino: con sussulto finale verso la punta dei capelli e poi braccia strette ai fianchi e testa di qua testa di là e i capelli biondi e lisci si schiaffeggiano con i capelli scuri e ricci a seguire un loro ritmo ritardato e scosso.

Baby è passato a un brano lento. Un amore non corrisposto, denso di do’nt cray, loneliness, my love, alone e tutto il resto, che se fosse amore e cuore sarebbe indigeribile. E’ così: solo nella lingua materna siamo in grado di percepire lo stridio della banalità.

La ragazza – giovanissima, tutta sul dark, smalto viola, con il bel viso bianco affaticato – gira tra i tavoli e ogni volta io mi meraviglio della velocità con cui riesce a passare senza mai sbattere né a una testa né a una sedia né a una spalla, con i vassoi pesanti di birre, Alexander, acque minerali, Gin and tonic, Vodka ghiacciata, Negroni ……… Ci porta un caffè, per me, un Captain Cook – due parti di gin una di maraschino una di succo di arancia e mi raccomando che sia proprio succo di arancia e senti scusa che il bicchiere sia gelato come si deve….. -  naturalmente per Elvira, che affetta la seconda esse di “scusa” che così sa più di fine, birre per Ciccio e la sua nuova ragazza prosperosa, coca cola per i ragazzi di Ciccio.

-         Es la primera vez on Italy?

Elvira si sta esibendo nel suo personale esperanto, dedotto da anni di musica in tutte le lingue, con la sua vicina dai capelli biondi e il viso scuro da india.

-         No, mia madre è italiana. Io sono nata in sudamerica.

Dice sudamerica. Non Argentina o Cile o Bolivia o altro. Solo sudamerica. Parla un italiano senza inflessioni. Elvira le si è spontaneamente rivolta in spagninglese. Dopo anni di frequentazioni di locali come questo, ha sviluppato un sesto senso per identificare la provenienza delle persone da particolari – come le scarpe, i monili, le acconciature, gli accessori in genere – che a me continuano a non dare alcuna informazione.

Ha uno sguardo profondo e vivace, che mi appare colmo come di un dolore sotterraneo.

La riconosco. Poco fa prendeva il caffè al bar all’angolo. Guardava incredula la sora Cecilia assatanata al videopoker. La sora Cecilia avrà non meno di settantanni e almeno venti chili di più. Si piazza seduta alle manopole della consolle, con in grembo la doppia busta di plastica della spesa pesante di monete di tutte le misure. Si porta regolarmente appresso la mamma ultranovantenne, rinseccolita nella gonnellina nera a pieghe cortina e troppo larga e densa qua e là di macchie di varia cucina e sbrodolamenti senili. La mamma si piazza di lato, resta per tutto il tempo pressoché immobile a fissare lo schermo con gli occhi quasi ciechi dal biancore della cataratta. Al fianco della sora Cecilia, in piedi dietro al sedile, immancabile, uno spilungone di età indefinita - sigaretta stropicciata all’angolo della bocca, barba trascurata e grigiastra, lungo impermeabile marroncino sbiadito in tutte le stagioni, gli occhi spiritati e inspirati - il cui ruolo mi ha sempre incuriosito. Il trio occupa immancabilmente la stessa posizione alla stessa ora di ogni sera. L’aria della sora Cecilia è tutt’altro che sportiva. Per capirsi: è di quelle che se mi distrai e mi fai perdere la battuta ti posso ammazzare con uno sguardo, se non m’alzo e t’ammollo una vera pizza.

Ciccio smanazza intento con le prosperità della ragazza, che decisamente gradisce, anche se si guarda intorno con aria corrucciata e complice come a chiedere solidarietà del genere ma guarda tu che mi tocca sopportare ………. i ragazzi di Ciccio – dodici anni stupendi di riccioli neri sguardo fiero l’uno, quattordici anni compatti e abbronzati di vero sport all’aperto l’altro – ciucciano la coca cola, annegata in cubetti di ghiaccio che rendono il bicchiere opaco, dalla cannuccia, del tutto disattenti al padre, e invece estremamente vigili rispetto all’ambiente di fumo musica e corpi.

-         Lavoro per l’università.

-         Davvero! che bello!

Elvira è davvero entusiasta. Fuori corso storica, sempre alle prese con possibili incarichi esami rinviati lavoretti, Elvira non conosce l’invidia, e toccare con mano una in carne e ossa che dal sudamerica sta qui, davanti a lei, in Italia, a Roma, con una vera borsa di studio sudamericana, la può davvero fare felice, come per qualcuno che ce l’ha fatta e dunque anche lei ha una possibilità.

-         E ti basta a mantenerti qui?

-         Me la cavo. Sono stata sei mesi a New York come baby sitter e ho risparmiato quanto basta.

Elvira ad occhioni aperti. Questa viene da chissaddove, parla italiano meglio di me, parla l’inglese perfetto – l’ho sentita prima con il bassista pennellone scozzese – e sta qui al centro del mondo tutta tranquillla e nemmeno sembra avere i soldi di famiglia…..

-         Brava! E’ proprio quello che voglio fare io: appena laureata, una borsa di studio per New York……

-         Certo ….. tu che cosa studi?

-         Sociologia; sto seguendo una ricerca sugli artisti della metropolitana, sai quelli che dipingono le carrozze al neon luccicante di polvere dei sotterranei….come a New York ….. da un po’ hanno cominciato pure qui ……. per me sono proprio brutte!

-         Anche quelle che ho visto a New York mi sembravano abbastanza brutte, credo che il momento magico sia passato ……….  io sto facendo una ricerca sugli artisti che hanno rappresentato, nelle diverse epoche e con diverse tecniche, lo stesso episodio biblico ……

-         Bello! Allora girerai tutta l’Italia! Anzi, tutta l’Europa!

-         Lo spero. Avrei pure intenzione di scrivere come una storia romanzata dell’episodio ….. è un racconto così avvincente …..per una donna …….

-         Davvero? Cioè scrivi un romanzo della tua ricerca di queste opere? Magari ci metti anche noi adesso?

Elvira si è già elettrizzata all’idea di diventare personaggio di un romanzo scritto da una sudamericana di origine italiana che ha vissuto a New York…..

-         Bhè, non proprio …. non mi sono spiegata bene ….. quello che ho pensato è di romanzare quel pezzo di bibbia – ehi, senza offesa! – prendendo a spunto i modi come la storia è stata rappresentata dai vari artisti.

-         Ah! ho capito …….

Elvira adesso è perplessa. Le coordinate sono cambiate.

-         Come modelli ho in mente il Ponzio Pilato di Bulcakov nel Maestro e Margherita  …… sai c’è un capitolo – mi pare, o forse più d’uno, non sono sicura – dove si parla di Ponzio Pilato con il mal di testa ……. è spiazzante rispetto al resto che si svolge a Mosca ..…..

-         L’ho letto tanti anni fa e non me lo ricordo ……

-         … E poi mi piacerebbe far parlare la protagonista in prima persona, sai come fa Yehoshua nel Signor Mani …………

-         Ho sentito parlare di questo Yehoshua, ma non ne ho letto niente ….. ma ‘sta storia che vuoi raccontare qual è?

Mi giro, lentamente, quando dice Giuditta e Oloferne. Ha gli occhi al soffitto. I pugni stretti.

Era la riproduzione che accompagnò i miei deliri dopo la coltellata. Ero di fatto dissanguato. Un miracolo. Quanti anni. Tornai in quella stanza, una volta guarito, e ritrovai le mie allucinazioni nell’espressione gentile, crudele, ma infine ineffabile, che Klimt aveva dato a quella donna affascinante che poggia amorevolmente la mano sulla testa che ha appena staccato – ma questo dalla rappresentazione non è evidente, se non lo si potesse dedurre dal titolo, e quindi dalla conoscenza della storia biblica – ad Oloferne.

-         Hai già visto Caravaggio a Palazzo Barberini?

Si gira verso la mia barba bianca. L’espressione è come di gratitudine.

-         Non ancora. Conto di andarci in settimana.

-         E’ terribile. La prima volta che lo guardi ti viene da scansarti per non essere colpito dallo spruzzo di sangue…….

-         In effetti è così continuo ….. colto in strisce lunghe ……… come se ci fosse già stato il cinema pulp con i suoi rallenty……

Le pause sono vere. Non sta recitando. Sta visualizzando il quadro e dice quello che davvero le viene. Non vuole stupirmi con la sua profonda conoscenza della materia e la capacità di fare al volo collegamenti trasversali.

-         Io sono ogni volta sconvolto dallo sguardo rovesciato di Oloferne.

La sto fissando negli occhi. Esibisco il mio migliore sguardo profondo e indagatore e tuttavia attento a non penetrare oltre il dovuto nei confini altrui.

Stavolta la sospensione dura. Per quanto frughi questo è un particolare che non “vede”. La bocca aperta senz’aria. L’occhio che vorrebbe incurvarsi a cogliere lo sguardo della sua carnefice, ed è invece saldato tra i capelli tirati all’indietro dalla mano sinistra di Giuditta e la scimitarra che, solidamente stretta dalla mano destra, ha staccato metà collo e sta ben appoggiata sopra alla parte ancora connessa alle spalle. Dev’essere il primo colpo. La bibbia dice che lo colpì per due volte.

-         …E’ un particolare che ora non riesco a visualizzare…... ci farò attenzione. A me è rimasta impressa soprattutto l’espressione di Giuditta.

Mi guarda con un mezzo sorriso. Sta valutando se può sbilanciarsi. Ha molta voglia di scambiare la sua passione per questa ricerca e si sta chiedendo se sono uno che ha un interesse vero o solo uno che ci sta provando. L’abisso di età sembra ininfluente. Ok. Io dismetto lo sguardo profondo e lei decide che può continuare.

-         Ha l’aria di una che fa un lavoro, come se stesse staccando la testa a un pollo. Quel po’ di distacco che mostra sembra dovuto principalmente ad evitare che le arrivino addosso gli schizzi di sangue.

Un’altra pausa. Questa più lunga. Mi guarda per capire se la sto prendendo sul serio.

-         E la faccia dell’ancella: nessuno l’ha rappresentata così vecchia e rugosa. Ha quell’aria sollecita, con le mani forti e decise che artigliano il panno - forse è il panno pronto ad accogliere la testa staccata di Oloferne…... - una faccia segnata da una vita in cui ha visto tutto. Per lei questa è un’incombenza come un’altra. E’ feroce.

E’ infervorata. Il dialogo dura il tempo della canzone lenta. Baby riparte con un rock il cui livello di decibel comunque non permetterebbe di continuare. Giuditta e Oloferne. C’è un punto della vita in cui i ricordi si staccano dall’esperienza quotidiana e diventano autonomi. Pretendono una loro vita a sé. Vorrebbero esistere indipendentemente da te che solo puoi renderli significativi ancora oggi. Vogliono che tu cominci a vivere non con loro ma di loro. Vogliono diventare statici. Sono stanchi. Vogliono essere definitivi. Vogliono che da loro e solo da loro succhi tutta la linfa che ti serve. Quando sei vecchio, resistere a questa tentazione diventa una lotta tra la vita e la morte.

E’ il momento dell’intervallo. Saliamo le ripide scalette attorcigliate a prendere un po’ d’aria frizzante della prima primavera. Ximena si è unita alla nostra compagnia.

-         Ximena, sai che ‘sto vecchietto è stato un nostro grande e valoroso guerriero?

Ciccio già in azione coinvolgente esuberante carico di energia positiva strabordante.

-         Ciccio, dai, falla finita.

-         Ma no, è come un garibaldi del 900, eroe dei due mondi, è riuscito a fa’ casino sia qui sia da voi …

-         Ciccio!

Ximena è divertita della sovrabbondanza di Ciccio, che si è già ridedicato ad abbraccicare la morona che lo accompagna mentre allunga ai figli una banconota per il gelato.

-         Oh: il resto, ci siamo capiti, eh?

-         Allora, Ximena, come è il tuo soggiorno a Roma?

-         Molto molto interessante, grazie!

Cristo, adesso parliamo del tempo e di quanti italiani conosce in sudamerica e poi se io ci sono mai stato – ma davvero? - e dove e che ho fatto ……

-         Sai, sono stato attratto dalla tua ricerca su Giuditta e Oloferne. Mi ha risvegliato ricordi lontani.

-         Veramente? E cioè?

-         No, scusa adesso non ho voglia di tornarci ….. è che …. è che in poche parole sarebbe banale e per renderti l’idea sarebbe troppo lunga …. casomai un’altra volta …… sei già stata a Firenze?

-         La prossima settimana. Mi aspetta Artemisia Gentileschi. E’ l’unica rappresentazione di Giuditta e Oloferne in cui Oloferne viene ucciso con un chiodo e un martello!

-         Ti sbagli. Artemisia fa tagliare la testa di Oloferne con una bella spadona. E’ tra le più cruente. Si capisce. Era stata violentata da piccola e sembra che ad Oloferne abbia prestato la faccia di quel porco.

-         No, no, te asiguro: Oloferne dorme e Giudita le pianta un chiodone en la tempia destra …..

Tenera. Si è emozionata per essere stata contraddetta e inserisce un po’ di spagnolo nel suo altrimenti perfetto italiano.

-         Insisto: ti sbagli. Sono sicurissimo che nella Giuditta e Oloferne di Artemisia, agli Uffizi, Giuditta usa la spada per staccare la testa di Oloferne! E tra i più selvaggi. In quasi tutti gli altri, Oloferne dorme e ha l’espressione più o meno inebetita…….. qui è ben sveglio, cerca di difendersi, di allontanare a braccio teso l’ancella che lo tiene giù mentre Giuditta gli schiaccia la testa sul cuscino con una mano e con l’altra, per come tiene la spada, sembra che gli stia segando il collo ………

La mia sicurezza fa vacillare la sua.

-         Guarda, es posible che me confondo con Napoli, el Museo di Capodimonte, pero lo giuro che lei le pianta un chiodo così nel cranio!

Cranio è pronunciato che si sentono le ossa sgretolarsi.

-         Ximena: a Napoli, a Capodimonte, c’è Giuditta e Oloferne di Artemisia, ma di nuovo gli taglia il collo con uno spadone …. sono due dipinti simili, a Napoli e a Firenze, stai facendo qualche confusione …..

Avrò esagerato? Ximena è rimasta a occhi e bocca spalancati.

-         Tu sei stato molto colpito da questa storia, vero?

Ha cambiato completamente registro. Ehi, ragazza, non così presto, non così veloce, vacci piano …..

-         Colpito …… sì. Non so dirti. Ad un certo punto era come un’ossessione. Il primo che ho visto era di Klimt.. … bhè ….. le circostanze … ehm …. insomma sono quelle a cui accennavo prima e che adesso non mi va…..

-         No, no …. no te preocupe ……. puedo comprender ….   sì, ricordo, Artemisia lo ha rappresentato anche con la spada …..  il sangue sta colando sul lenzuolo bianco … es poquito pero ….. scusa sto parlando spagnolo …. ma tu mi capisci, vero?

-         Sì, sì ti capisco. E’ una lingua che amo, infine.

-         Por què “infine”?

Troppo veloce, Ximena, troppo veloce …..

-         Ora andiamo, staranno per rientrare; ti piace Baby?

Ha incassato signorilmente ma ci è rimasta male e non cerca di nasconderlo. Non le piacciono le interruzioni brusche di comunicazione. Io funziono così, Ximena, che ci vuoi fare. Il meglio che ho potuto è stato di imparare ad accorgermene mentre lo faccio.

-         Sì. Abbastanza. Andiamo giù.

Baby è ripartito con un omaggio a Jimmy Hendrix. C’è un altro chitarrista sul palco. Un giovane che, dopo la dura gavetta del blues, ha sfondato per una faccia simpatica e con canzonette da delirio e che ogni tanto torna a trovare i vecchi amici, i maestri, e vorrebbe risentire quel fuoco nelle vene che ventimila ragazzine schiumanti e osannanti in uno stadio non gli trasmettono più. Ce la mette tutta, si vede che è questa la sua musica. Ma è la sua musica che stavolta non se lo riprende. Non per questa sera. Baby è un gran signore. Gli dà spazio lo asseconda lo coccola lo insegue e il ragazzo famoso ci dà dentro ma è come se gli mancassero le strapazzate di quando Baby lo svezzava.

Ximena ed Elvira hanno ripreso con il loro ciucciucciù.

Ciccio fa lezione ai suoi meravigliosi ragazzi sulla sofferenza da cui proviene il blues e sulle avventurose origini di questo storico locale.

Le corde delle due chitarre si inseguono si intersecano si staccano. La musica ha questo: che supera i limiti del tempo. Supera la morte. Non fatevi ingannare dal pentagramma, dai quattroquarti, dalle scansioni, da qualsiasi contenitore pretenda di rappresentarla.

Le nostre relazioni, quelle tra le persone umane, non sono forse basate sul ritmo? Sulla scommessa di riuscire ad andare allo stesso tempo? Quante eccellenti coppie muoiono, o annaspano prive di aria, per mancanza del giusto tempo? E non parlo di quelle che stonano. Nemmeno di quelle dove il controtempo è la regola. No, la musica accetta il controtempo, e la dissonanza. La prevedibilità, il giro di do, quella è mortale. Facciamo l’amore, e non è quanto siamo bravi a durare tanto o a succhiare un cazzo o ad accarezzare con maestria che lo rende eccitante o appagante. No. E’ la capacità di ascoltare l’armonia dei corpi, di riconoscere quando. Quando è il momento giusto per “quella” carezza. Il grande musicista è quello che sa fare quella carezza appena un instante “dopo”, ma non oltre, o un soffio “prima”, ma non oltre, del momento giusto. Come per il batterista sapere quando è il momento per fermare la vibrazione del piatto. E il bravo comico, non è quello che, piuttosto che inventare la battuta più divertente, sa l’arte del tempo in cui far cadere la parola, o il silenzio? La musica parla al nostro corpo. Anche Bach lo fa. E’ vero, lui parte dalla testa, ma puoi scoprire il distillato di passioni travolgenti che ci sta dietro e che ti riempiono il corpo fino alle vertebre, ancora quattrocento anni dopo, se permetti alle note di fluirti dentro.

Il pubblico è tutto in piedi nel rito dell’applauso al figliol prodigo e all’anziano maestro. Elvira fa il verso delle donne algerine. Ximena applaude convinta. Se Baby potesse immaginare come, straniato dal suo blues, sono ora sopraffatto dal ricordo della grande fuga di Beethoven! Il nostro signore Tempo, lì, vorrebbe essere lui contenuto e si arrenderebbe, se potesse, tanto gli archi sono tenaci e implacabili, anche quando sembrano rilassati, nell’inseguirlo nel metterlo all’angolo nel lasciargli sempre, tuttavia, una dolorosa possibilità di uscita, una sola, che il signor Tempo, annientato, utilizza per continuare ad esistere. Nessuna musica mi squassa altrettanto.

-         Lui dorme beato, con il braccio sinistro per cuscino. Lei ha l’aria tranquilla. Non ci sono ancelle in vista. Con la mano sinistra – le quattro dita sono bel delineate – tiene la parte inferiore di un grosso chiodo, che fuoriesce per almeno altrettanto a finire su una grossa capocchia luccicante. La mano destra è sollevata, più in alto della testa – la treccia è raccolta a chignon – e pronta a far calare il martello.

La serata, pungente, è di quelle che Roma è capace di regalare e Ximena, anche se arrivata da poco, appartiene al genere di persone in grado di goderla.

Stiamo camminando verso piazza Navona. Ximena non demorde dalla sua Giuditta con chiodo e martello.

-         Sì, tu sei così presa e ti sei così impegnata in questa ricerca che naturalmente ti credo. E’ che io sono convinto di conoscere tutte le Giuditta e Oloferne di una qualche notorietà, e questa notizia mi sconvolge quasi. Mai saputo.

-         Senti, devo avere a casa una rivista con la riproduzione….

Mi ha preso sottobraccio. E’ come aggrappata con tutte e due le mani al mio braccio destro. La massa di capelli bionda si appoggia alla punta della spalla. Non è così che funziona, Ximena. Non funziona così. Sono un fantasma. Non lo sai che sono un fantasma? E tu? Tu con quel culetto perfetto e lo sguardo pulito? Tu non sai ancora di essere un fantasma. Piazza Navona vuota ha una luce notturna, per i nostri passi sui sampietrini, quale solo Roma sa dare. Facciamo un otto doppio intorno alle tre fontane. In silenzio, come in un film in bianco e nero degli anni cinquanta, battiamo il passo come i soldati, o abbozziamo passi di danza avanzando sempre lo stesso piede finché è raggiunto dall’altro e riparte. Immagino il cuoricino di Ximena che batte forte. Il mio è in subbuglio. Eppure io so che siamo fantasmi.

Camminano con lo stesso passo, come due carabinieri. Lui più avanti, lei leggermente più indietro, non si sa se per scelta o per stanchezza. Avrà intorno ai 60 anni, dai capelli bianchi fluenti e dalle rughe che spiccano sul viso glabro. Non ho mai visto prima un mongoloide anziano. Forse muoiono di solito più giovani. Lei è più vicina ai 90 che agli 80. Lui ha la faccia contenta. Lei è tutta in strati eleganti e di diversa lunghezza svasata di nero. E’ stata alta e lo è ancora, pur con una gobba pronunciata. Cipolla imbiancata ben curata. L’aria è stanca, anche più dell’età che porta.

-         Quando lei morirà, chi si occuperà di lui?

-         Come fai a sapere che stavo pensando questo, Ximena?

-         … Sono belli …. vero?

-         Forse muore prima lui… e lei avrà qualcuno di cui occuparsi?

Mi guarda. Può essere cinismo puro. O sentimento mascherato da intelligenza senza cuore. Come si fa a capirlo, Ximena? Sei ancora piccola, per questo.

Poco prima, i carabinieri - uno dei due avrà meno di vent’anni, il viso rubizzo - hanno convinto ad andarsene, dalla preziosa postazione a fianco dell’entrata della chiesa, uno che è stato giovane e si è dimenticato di non esserlo più, alto e magro, con due cani grossi – uno bianco e uno nero – il codino curato, la giacca lisa di troppi lavaggi, i pantaloni a cica che lasciano scoperta la caviglia nodosa. Si è alzato sbraitando contro la disoccupazione e i servi del padrone e non finirà così. I cani lo precedono e si avventano abbaiando minacciosi ed innocui sui passanti ancora numerosi. Lui, raggiunto un altro angolo abbastanza strategico, li richiama a voce forte e quelli gli si accoccolano a fianco. Non ha ancora l’esperienza dei vagabondi tedeschi che imbottiscono di sedativi e birra le pappe dei loro cani docili e sonnolenti, a suscitare compassione nei vicoli di trastevere.

-         Sì, voglio vederla ‘sta Giuditta con il martello …… dov’è che stai?

-         Qui vicino, dietro piazza Farnese, a via dei Cappellari.

Mi avvolge sempre il braccio destro con le mani, ma ora si è staccata e mi guarda da lontano come un pittore osserverebbe con occhio clinico la sua ultima opera.

-         Io sono un fantasma, Ximena, questo lo sai, sì?

-         Sì, lo so. Ciò non mi toglie l’allegria. Andiamo, allora?

Siamo in vista di Charles de Gaulle. Allacciare le cinture. A terra cielo sereno e 15 gradi. Il comandante vi augura un piacevole soggiorno.

 “Violencia entre luces y sombras” è intitolato l’articolo della rivista di Ximena. Sottotitolo “Artemisia Gentileschi”. Poche righe – nero su viola che mi costringe agli occhiali – sulla vita di Artemisia, la bottega del padre Orazio, e su un film francese ispirato alla pittrice del seicento.

Sotto, a tutta pagina, Oloferne dorme tranquillo e beato. Giuditta, con un solco evidente tra i seni pieni e sostenuti da un corpetto aderente, sta in ginocchio. Le sue gambe, che si indovinano ben tornite sotto ai drappeggi della veste gialla, sono ai lati della testa di Oloferne. E’ vero: gli ha appuntato, con la mano sinistra, un lungo e grosso chiodo sulla tempia, e si accinge a frantumare l’osso parietale piantandocelo con il martello impugnato dalla destra. Il viso è leggermente abbassato; l’espressione, quindi, è poco decifrabile. La immagino come per una pazzia serena e tranquilla. Continuo a rigirare il giornale tra le mani. Trovo l’interruttore di un faretto disposto per illuminare una composizione di fiori secchi, cannolicchi dipinti di blu, pinoli non sgusciati, conchiglie minuscole, incorniciati in nove tristi riquadri a tre per tre, a loro volta imprigionati da  squadrette di legno e da un vetro che li mostra senza vergogna. Alla sua luce vedo meglio.

Ximena è raggiante. Sprizza faville di soddisfazione.

-         Allora, che ne dici?

-         Ti sto per dare una grossa delusione, Ximena, ma ti sto anche facendo risparmiare un lungo viaggio, se la tua ricerca è proprio e solo su Giuditta  e Oloferne.

Delusa è poco. Merita di più. Ximena Ximena ….. avrai ventidue ventitré anni … sei una donna, non c’è che dire ….. Rabbuiata. Preoccupata.

-         Che vuoi dire?

-         Ximena, questi sono Jaele e Sisera. Sempre Bibbia, ma è un’altra storia …… il quadro mi pare che stia a Budapest.

Non ci crede non ci crede non ci vuole credere non vuole dubitare di me e fra poco piange.

-         Succede, Ximena, sei stata tratta in inganno da un giornalista superficiale ……… dai su …… bhè direi che ti sei meritata almeno di conoscere l’origine di questa mia fissazione.

Forse ci riesco, a distoglierla dalla vergogna e dalla rabbia, che sembrano sovrastarla ben al di là della sostanza della faccenda.

-         E’ una di quelle riviste che distribuiscono gratis nei cinema, da noi ….che pezzenti!

-         Ma dai!

-         Sì, tutta pubblicità e propaganda politica ….. io l’ho tenuto proprio per questa riproduzione …. pezzenti pezzenti pezzenti!

Ha le lacrime agli occhi

-         Bhè considera che ti sei risparmiata un viaggio a Budapest …… o forse ti sarebbe piaciuto andarci?

-         Li ho fotografati tutti, quelli che ho scovato.

Segue una sua traccia.

-         Come hai fatto, te l’hanno permesso?

-         Bhè, insomma, qualche volta sì, qualche volta no, ma io alla fine non me ne sono mai andata senza la mia bella foto.

-         Tipo tenace, eh?

Mi guarda con forza.

-         Adesso lo straccio, questo ……

-         No, no, non lo rovinare, magari ti può servire come confronto.

Eccomi a fare il papà.

In effetti, sarebbe più aderente alla realtà se pensassi: “il nonno”.

-         No, non lo voglio più vedere …… ma a te può interessare? Tu lo conserverai? Come mio ricordo?

Ximena Ximena…….è ora di dire “si è fatto tardi”?

-         Certo che mi ricorderò di te. Sei generosa a darmelo. Lo apprezzo molto. Per me è ……. insomma tanti anni fa, ero molto molto giovane, accompagnavo a cavallo gli ospiti alla festa di un principe ………..

-         Cheeee ????? !!!!!

-         Sì sì un principe ….. era tanti anni fa. C’erano anche i principi.

-         E le principesse.

Perché l’ho aggiunto? E’ possibile che ancora oggi riesca a rendermi triste? Ximena non fa in tempo a capirlo.

-         Insomma mi beccai una coltellata ….

Il modo con cui si porta la mano sulla bocca è quello di chi si sta preoccupando della mia salvezza come se fossi stato appena ferito.

-         Dai Ximena, sono guarito … e dopo la coltellata ci fu tutto un film e una serie di leggende metropolitane, come che il principe fece fermare un treno per trasportarmi e fece scovare nel letto di qualche sua amante un famoso chirurgo per salvarmi ….

-         Giorgio …..

-         Ximena non te ne stare lì a bocca aperta sognante, era proprio in un’altra vita ….

-         Ma che avventura!

-         Vita vissuta, baby …..dai ….. ho tre o quattro volte i tuoi anni, per forza mi devono essere successe un po’ di cose interessanti …. sono vissuto in epoche che tu hai visto solo sui libri ….

Il buffetto sulla guancia non basta a ristabilire del tutto l’atmosfera di cameratismo che vorrei. Mi siedo sul divano. Ximena mi segue a fianco.

-         La storia devono averla anche un po’ romanzata …….. finì pure sulla Domenica del Corriere …  era una rivista settimanale, con paginone grandi forse quattro volte le riviste di  adesso formato tabloid, che in prima pagina aveva sempre un disegno su un qualche fatto che potesse attrarre l’attenzione popolare … sai allora non c’era la televisione, e nemmeno le troupes e nemmeno i free lances pronti a tutto pur di uno scatto …

-         Giorgio io te lo devo dire ..  sono così emozionata ….

Indosso pantaloni leggeri abbastanza larghi, con le tascone staccate fuori. Ximena ne stringe la stoffa a metà gamba, sulla parte esterna, come aggrappata ad un relitto per non affogare.

-         Piccola …. l’hanno un po’ esagerata: la Domenica del Corriere titolò “Il centauro di Maccarese”, pensa! Devo averne una copia da qualche parte…….ma quello che ricordo di certo è la Giuditta che mi guardava nella stanza dell’ospedale. Ho delirato per giorni, e ogni volta che aprivo gli occhi era lì, con quell’espressione ….era una riproduzione di quella di Klimt…… chissà come era finita lì…..

-         Fa impressione, vero, il fascino che emana da quella donna?

-         …Affascinante….. certo …. quando sono andato a vedere l’originale a Vienna non volevo credere che la cornice di legno, con la scritta in oro, non fosse dipinta …… ero convinto che facesse parte del quadro, che l’avesse dipinta Klimt ……. invece certo si può dire che faccia parte del quadro, tanto è integrata la scritta in oro, ma è una vera cornice di legno ..….. sono riuscito a farmi sgridare dalla custode – un donnone dal tedesco terroristico – per aver avvicinato il dito a controllare …

Sono tuttora molto grato a Ximena per il suo regalo.

Non sapeva ancora, e nemmeno io, che mi stava facendo, insieme, un altro, differente, pericoloso, doloroso regalo.

Quello che mi ha portato a Parigi. Siamo in atterraggio. Non ho ancora deciso come lo ammazzerò.

-         Giorgio, dico davvero, non ho mai conosciuto uno come te….

-         Ximena, Ximena …… possiamo essere buoni amici, vuoi?

Perché svicolo?

Bella domanda.

Perché non mi interessa? Perché mi potrebbe interessare troppo? Perché sono stanco? E di che sarei stanco? Di emozioni? Di scenate? Di solitudine? Di troppe attenzioni?

Troppo fascino?

Di fantasmi. Sono stanco di fantasmi.

Di esserne inseguito. Ogni tuffo nelle profondità li risveglia. Mi costringe a confrontarmi con il dubbio se non siano loro, e solamente loro, a tenermi vivo. E Ximena: un ponte verso chissà quale fantasma. E’ giusto? A chi importa se è giusto? Non aspetta altro che di essere presa tra le braccia da un vecchio per riprendere contatto con chissà quale nonno o padre o quale altro antenato appeso a qualche parete dell’infanzia. Che cos’è ad attirarla? Oh sì, posso risultare un tipo interessante, certo, ma è la mia barba? oppure l’intonazione della mia voce? o il mio camminare? o forse sono i miei vestiti, il mio sguardo, il mio odore a sedurla? Quale di questi miei pezzi, o quale altro, le richiama un dolore trascurato, carezze non ricevute, un buco nero senza fondo da riempire …. quale, eh, quale? Ximena Ximena ….. sono stanco di fantasmi, Ximena. Almeno per stasera. Sorry.

Ha voluto per forza accompagnarmi alla fermata del tram e farmi compagnia finché non è arrivato. Proprio una cara ragazza. Mi ha dato un bacio morbido morbido sullo zigomo, dove la barba si dirada.

Il giornale di Ximena l’ho dimenticato per giorni sulla mia larga scrivania, framezzo a ritagli, libri da leggere, libri letti, lettere a cui rispondere, calamaio e inchiostro, polemiche invecchiate.

E’ il giorno della signora Alba. Se non sono io a mettere a posto non troverò più niente per settimane. Il criterio di classificazione della signora Alba, infatti, è rigorosamente legato allo spazio bidimensionale. Raccoglie tutte le carte per larghezza e lunghezza, dispone le più larghe e lunghe sotto e le più strette e corte sopra, mischiando inesorabilmente ritagli di giornali, lettere d’amore, libri mai aperti, libri tormentati dalle sottolineature, carta extra strong intonsa e qualsiasi oggetto cartaceo le capiti a tiro sia sulla scrivania che in tutta la stanza. Fa uno, al massimo due mucchi, se valuta che uno solo possa rischiare di crollare. Infine,  spolvera soddisfatta.

Quale dio dispettoso governa la casualità? E’ capitato che la rivista di Ximena, dopo la messa in ordine della signora Alba, stia in cima al mucchio dei pezzi più grandi. Sotto stanno un paio di volumi dell’enciclopedia, libri di fumetti, libri d’arte, altro.

E’ capitato anche che lo spiraglio, solitamente discreto, che la signora Alba lascia per arieggiare la stanza a far disperdere gli odori di saponetta alla mela e limone verde dei detersivi, si sia allargato per via di uno scirocco improvviso.

Con la solita, tranquilla disperazione del rientro a casa colpevole per non aver fatto io ordine, e per essermi di conseguenza condannato alla riclassificazione e ridisposizione dei vari pezzi, mi avvicino alla finestra per chiuderla. Con tutta calma, tanto il vento non potrà fare maggiore rimescolamento della signora Alba.

Ha fermato questa pagina. Poteva sfogliarle tutte. Poteva graziosamente lasciare il segno sulla pagina di Jaele e Sisara di Artemisia con il chiodone sulla tempia. Sarei stato meno sorpreso se avessi trovato che nel frattempo Sisara aveva finalmente piantato il chiodo nel cranio di Jaele. Invece, dall’alto del mucchio più piccolo, il vento ha aperto il Piccolo Principe - una copertina rigida di un’edizione in francese – e l’ha posata su questa pagina della rivista di Ximena, bloccandola proprio mentre cercava di girare alla prossima. Le altre pagine seguitano a scartellarsi sotto lo scirocco, ma Antoine de Saint-Exupery tiene duro, e la tiene inchiodata lì per me.

Tutta pubblicità e propaganda politica, aveva detto Ximena.

Lo riconosco con la coda dell’occhio mentre chiudo la finestra. Anche se non lo vedo da quasi quarant’anni.

Prendo la rivista in mano. Accompagno le dita a ridistendere le pagine stropicciate dal vento.

E’ invecchiato, naturalmente.

Quindi: è una foto recente.

Ha fatto una grande carriera, pare. A fianco del Presidente che inaugura la diga che porterà benessere sia alle popolazioni indigene sul cui territorio è stata costruita, sia alle città verso le quali sarà diretta l’energia abbondante che potrà essere prodotta, sia alla Nazione tutta che sarà fiera della capacità di innovazione sposata al rispetto per l’ambiente di cui sta dando prova.

E’ quasi calvo, lui che portava una chioma nera fluente e sbarazzina. Ma non ho alcuna titubanza. Gli occhi sono inconfondibili. Attenti. Vigili.

E’ solo di poche settimane fa. Con quella abbronzatura di chi, anche se anziano, fa vita sana all’aperto. Ora è il capo della sicurezza.

Quel dio birbante che sovraintende alle coincidenze fa entrare, dalla porta finestra mal chiusa, una folata di scirocco lamentoso che mi avvolge la tenda intorno mentre una freddezza totale mi governa e ricaccia sul fondo, da dove sta cercando di emergere, la mia disperazione.

Affiora, invece, il ricordo di aver letto, pochi giorni fa, un trafiletto sul suo Presidente che, cadendo da cavallo nel bois de Boulogne, ha avuto un infortunio, piccolo, sì, ma che però lo ha costretto al ricovero -  per non meno di un mese - nella più esclusiva clinica a Parigi.

Dunque, è a Parigi.

Come potrebbe non essere vicino al suo Presidente?

Grazie, Ximena, ancora grazie.

Nonostante gli annunci del comandante, a Parigi piove.

Ad aspettare il taxi in fila prima di me, tre tipi in doppiopetto estremamente acchitto, aderente quanto basta a dare forma agli stomaci dilatati. Codino d’ordinanza. Sembrano tre killer in divisa da killer.

Sulla metropolitana, un tipo sui sessanta, corpulento. Un cappello/berretto di vero leopardo a visiera. Per ferma-cravatta una testa di leone d’argento. Sulle mani, per ogni dito eccetto i pollici, un anello con profilo di felino, alternati – dito a dito - uno d’argento e uno d’oro. O, più probabilmente, uno color argento e uno color oro.

Ogni città del mondo è piena di soggetti così. E’ che, quando siamo fuori dal contesto abituale, siamo più disposti ad essere sorpresi, più aperti alla curiosità. Non foss’altro che per questo, è valsa la pena viaggiare tanto.

La stanza è di quelle tutte eguali, con televisorino appeso alla parete per risparmiare spazio aria condizionata finestra sul cortile interno doppi vetri bagno a pareti coperte da un blocco unico di plastica bombata tipo roulotte.

Che cosa vado a fare? Perché sono venuto a disseppellire cadaveri? Giacciono in fondo alla mia anima. Da tanto tempo li ho sepolti. Non sono pacificati. Solo da vecchio posso apprezzare la forza equilibratrice dei riti, sempre snobbati per il conformismo sociale che parteciparvi implica e la credulità al soprannaturale che veicolano. Sarà il mio rito privato, alfine.

Me ne sto steso sul letto, vestito. Ho trovato un canale con videoclip sudamericani. Mi appare trasparente, tra il letto e la scrivania. Prorompe dal fondo insieme a lacrime calde e irresistibili. Pensatori illustri si sono interrogati sul riso. Che cosa lo provoca? In quali circostanze? Del pianto, pochi si sono curati. Diamo per scontato di saperne quanto basta. E’ sufficiente sapere che le ghiandole agli angoli degli occhi, quando sono troppo piene di liquido, lo secernono. Eppure, Darwin chiamò il pianto “a special expression of man”. Pare, infatti, che nessun altro animale al mondo ne sia capace.

Lo straniero di Camus viene condannato a morte per non aver versato neanche una lacrima al funerale della madre. Al maschio moderno è consentito solo in particolari circostanze, come un gravissimo lutto. Ma una sola, silenziosa lacrima. Questo sconquasso del petto e la barba bagnata di lacrime sono disdicevoli, al giorno d’oggi. Eppure il pianto di Giulio Cesare era presentato come exemplum virtutis, grande e virile. Il paladino Orlando piangeva senza ritegno. Nel diario di Ignazio de Loyola, che tenero non era certo, ci sono più episodi di pianto che pagine.

E’ venuta a ballare il tango con me. E’ bellisima, con i capelli lunghi e lisci.

Sono grigi. Hanno mantenuto la lucentezza di quando erano neri. Emma ha l’età che avrebbe oggi, se fosse vissuta. Non potevo fare altrimenti. Questo è vero. E, tuttavia, saperlo non mi è mai bastato.

 


Emma (torna all'indice)

 

E’ più sdrucito del suo cappotto. Compra latte e sigarette. Nessuno porta il cappotto, qui. Se ne sta taciturno e introverso. Pulito e trascurato. Non ha ancora girato l’angolo dietro al quale c’è un progetto di barbone. Solo stare sulla strada che può portare oltre quell’angolo fa sentire a un gruppo di ragazzotti – in fondo hanno soltanto quattro, cinque anni meno di me – il diritto di sfotterlo ad ogni passaggio, con quella bonarietà fasulla ottenuta con la finta confidenza usurpata dalla comune frequentazione del quartiere, del caffè.

Nessuno porta il cappotto, qui. In nessuna stagione. Siamo dalle parti dei tropici, qui. Si è infilato le sigarette in una delle tascone sporgenti del cammello. Si stringe la bottiglia di latte addosso, come a proteggerlo.

Il gruppo di ragazzi gli si fa attorno.

-         Ehi, Pedro, ti prepari al freddo?

Sono tutti in maglietta a maniche corte, o canottiera, o a torso nudo. Non meno di trentacinque gradi. Umidità vicina al cento per cento.

-         Pedro, Pedro, dai Pedro, ti vai a fare una bella tazza di latte bollente, eh Pedro?

-         Pedro ma sotto la porti la maglia di lana, eh?

Succede tutte le mattine alla stessa ora. Con poche varianti. Loro si divertono tutte le volte. Quando Pedro è uscito dalla loro vista passano ad altro. Pedro è un epifenomeno. Un accessorio. Un accidente della loro esistenza.

Stamattina è diverso.

Stamattina è come se la vedessi per la prima volta. Come ho potuto non notare prima quei capelli lunghi, setosi, scintillanti di broccato di carbone?

E’ lei ad alzarsi con lo sguardo di bragia, come Caron dimonio, quando Juanito, quello dall’aria più sveglia e il piglio da capo, ha la sagace destrezza di sfilare, al passaggio, la cintura del cappotto di Pedro e di farne lo scalpo del gruppo.

E’ una soglia che è stata varcata. Le parole sono diventate un fatto, ed è lei a percepirlo per prima. Si alza di scatto come nessuno si aspetta.

La cintura di cammello di mano in mano diventa un serpente lungo la polvere e un turbante in aria o un cencio appallottolato tra le mani.

Pedro è smarrito e furibondo. Si gira da una parte all’altra, sempre stringendo al petto la bottiglia di latte. Le falde del cappotto aperto seguono in ritardo le giravolte di Pedro, che accenna un passo verso Juanito, abbattendo pesantemente sulla polvere rossa la larga pianta del piede destro. Juanito gli gira le spalle con aria noncurante e, quando Pedro fa un altro passo verso di lui, rotea la cinta a mo’ di lazo, come se volesse catturare Pedro e, nel momento che quello gli è vicino, la lascia sfilare in modo che l’inerzia della fibbia la faccia scorrere beffarda verso un suo compagno alle spalle di Pedro.

Emma esce da dietro alla cassa.

Mi avvicino al ragazzo che ha ricevuto lo scalpo. Quello si gira verso di me come ad un nuovo partecipante al gioco. La mia espressione, però, lo dissuade. Guarda interrogativo verso Juanito, mentre appallottola la cintura per continuare la sfida. Pedro, sbilanciato delle finte dei ragazzi, si sostiene in equilibrio precario sulla bottiglia del latte poggiata a terra, i lembi del cappotto tra la polvere. Colui che detiene il trofeo ha finito di sprimacciarlo ben bene ed è pronto al prossimo passaggio. Sta solo aspettando che Pedro si rivolga verso di lui, come nella corrida che gli è rimasta nel sangue.

Arrivo prima.

Emma torna dietro alla cassa.

Gli sfilo di mano la cintura. Non c’è alcun contatto fisico tra di noi. Mi avvicino a Pedro, che nel frattempo si è rialzato, e gliene riempio la tasca del cappotto.

Pedro si allontana bofonchiando minacce anche verso di me.

Juanito se ne sta con le mani in tasca, appoggiato all’indietro con il piede sul muretto a secco. Superiore agli eventi.

Meglio così. Sa di aver superato un limite non detto ma conosciuto. Sa che non può vantare diritti di territorio, in questa terra in cui ogni giorno i nuovi arrivi dalla vecchia Europa superano i nuovi nati. Mi guarda tra la beffa e la sfida. Nel suo sguardo il vento perduto delle praterie sterminate, o forse della pampas, o delle steppe.

L’orgoglio che sprizza mi affascina, e supera la rabbia per la prepotenza di poco fa.

Ha un piccolo scorpione tatuato sul collo, proprio sotto all’orecchio sinistro. Dev’essere stato doloroso, lì.

Mi dirigo verso di lui, le braccia allargate, le palme aperte, lo sguardo all’aria mezzo complice mezzo serio, un sorriso di rispetto……

-         Una birra, Juanito?

-         Per tutti?

-         Certo! Emma, birra per tutti!

Quella sera aspettai Emma alla fine del suo lavoro. La accompagnai a casa. Ci tenemmo per mano. Era di una bellezza sconvolgente, ai miei occhi, con quei capelli neri a metà schiena, il passo lungo ed elegante, i denti bianchissimi nelle labbra carnose.

Parlavamo le notti intere, e non avevamo nessun bisogno di parlare per capirci. Volevamo le stesse cose, vedevamo il mondo allo stesso modo, i nostri corpi si attraevano naturalmente. Saremmo stati insieme e ci saremmo amati tutta la vita, e saremmo invecchiati bene vicini, con una caterva di figli e nipoti finquando, sazi, saremmo morti mano nella mano guardando le stelle, come in una di queste notti luminose. Se l’amore può esistere, si stava manifestando in terra, tra me ed Emma.

Sapete, la sensazione che la persona che hai al fianco non solo ti starà vicina, ma non ti darà delusioni, non ti farà soffrire, e la voglia di accompagnarla e coccolarla ed esserle un giorno padre e l’istante dopo lattante attaccato ai suoi seni e camminare tenendosi per mano sapendo dove andare. Insomma, per chi l’ha provato, è così che funziona.

Con Juanito, siamo diventati amici.

Possiamo non vederci per settimane, mesi, e con una sola occhiata decidere di perderci insieme per giorni cercando la via per il cratere grande, col cuore che tonfa ai rimbombi che vengono da lì sotto, oppure seguire nella foresta le carovane di mercanti verso le misteriose popolazioni interne. Se non mi vede rientrare Emma fa cercare Juanito, e se le dicono che anche lui è sparito, si tranquillizza. Sa che tornerò.

Ai primi di febbraio, invece, non ha dubbi. Sa che sono con Juanito nel bassifondi della festa della Santa.

Dura tre giorni, la festa della Santa, se non si contano le settimane di preparazione, che impegnano i quartieri in una gara senza limite al candelabro più alto e ai baldacchini intorno meglio dipinti.

Zucchero filato e polvere da sparo. Sono questi gli odori della festa.

Si comincia alle quattro di mattina. La città dorme, vigile, quando i primi devoti, sopra ai pantaloni della festa ed all’unico paio di grosse scarpe risuolate e chiodate, indossano il saio bianco, i guanti bianchi, lo zucchetto bianco, ed escono di casa sventolando in aria una lingua di stoffa bianca, roteata in tutte le forme che le geometrie non euclidee conoscono. E’ un esercito silenzioso che suona un concerto di fruscii di lino bianco e battere di suole chiodate sulla terra o, a mano a mano che ci si avvicina alla cattedrale, sul selciato. Le donne raccontano storie di spiriti ai bambini che si svegliano e vorrebbero affacciarsi e riconoscere con la vista quei suoni così diversi dal vociare e dallo sferragliare di carrozze e di zoccoli di tutte le mattine. La partecipazione – con il papà, o il fratello più grande, o il nonno, lo zio, il compare – alla festa della Santa sarà il passaggio all’età adulta, e al poter guardare al fratellino più piccolo, o pure alla sorella più grande, con l’aria di chi sa.

Siamo sempre tra i primi. Juanito bussa alla porta leggero, per non svegliare Emma la quale, peraltro, è ben all’erta, ed io sono già pronto dietro. Apro con leggerezza e richiudo accompagnando la porta per bene. A zig zag per le strade più strette come angeli dispettosi le circumvoluzioni per l’aria dei nostri panni bianchi non hanno niente da invidiare ai cerchi di Gödel.

La cattedrale è vicina al mare. Dietro al mercato del pesce, che ogni venerdì ospita le grida delle donne per l’asta a rovescio. Le più bizzarre tradizioni dei posti tra loro più lontani della vecchia Europa qui si mischiano senza pudori. L’unico altro posto che conosco in cui sono le donne a battere l’asta è in Portogallo. Vestite di nero, con le mani sui fianchi, al centro dell’arena governano la sequenza di pescispada piegati in casse troppo piccole per contenerli e sardine boccheggianti merluzzi argentati di squame guizzanti e polpi dall’ultimo tentacolo stanco e aragoste in ginocchio e razze esauste come rondini – sapete che le zampe della rondine sono così piccole e le sue ali così lunghe che se si poggia a terra non può riprendere il volo? – e mischiume brulicante di pescetti saltellanti e cernie dall’occhio stralunato e montagne di gusci che snaccherano e ogni genere di gambero arrotolato ……

E’ semplice: ogni partita ha un prezzo di partenza alto, e la donna banditrice – una diversa per ogni lotto – lo grida, aspetta qualche secondo, grida il prezzo diminuito e così via. Il primo che accetta l’ultimo prezzo gridato compra. Non si gioca su chi ha più soldi ma sulla freddezza. Non si può scommettere sul cedimento del concorrente più debole: bisogna essere capaci di bilanciare furbizia e avidità.

Arriviamo sempre presto, per scegliere la postazione sul pilastro della navata sinistra, da dove potremo vedere la Santa uscire dalla cripta.

-         Senor, prego, un’immagine del Sacro Cuore benedetto …

-         No, gracias.

L’americano ha risposto cortese ma seccato: sta cercando un buon posto e non vuole essere distratto, se no darebbe tranquillamente qualche spicciolo alla Rosa, che vive a vendere santini.

-         Senor, sono immagini benedette dal Papa, me le ha portate una santa suora dall’italia, la prenda, senor.

-         Mi dispiace, grazie, non sono credente.

L’americano ha pensato di usare l’arma definitiva per liberarsi della Rosa. Si è sbagliato. La Rosa fa un passo indietro. Si guarda intorno con atteggiamento teatrale. Un altro mezzo passo indietro.

-         Se lei non è credente, senor …….

Sta puntando il dito indice destro.

-         ……. Allora Dio non la vuole qui!

Ha alzato la voce quanto basta a superare il brusio della cattedrale non ancora colma. Si guarda intorno. Ha attirato gli sguardi di disapprovazione dei più vicini. L’americano è interdetto. La Rosa si gira e si allontana di due passi. Torna indietro e lo tira per la camicia. La voce della Rosa è un sussurro potente:

-         Io mi scuso con lei, senor, questa è la casa del Signore, tutti hanno diritto di stare qui. Io soffro per lei, senor, che non ha il dono della fede. Pregherò per lei. Ha visto Estrelita? E’ morta in meno di due mesi. Ha sofferto molto. Io pregherò per lei, senor. Le auguro di continuare a star bene.

La Rosa se ne va, stavolta definitivamente, soddisfatta del sapiente miscuglio di perdono e menagramo.

Il duomo è ormai traboccante. Non si potrebbe in nessun modo uscire, adesso.

E’ il silenzio subitaneo a dare il segnale che la Santa sta uscendo. Facciamo a turno, con Juanito, ad arrampicarci sullo spunzone del pilastro, da dove si vede l’ondeggiare dei fedeli che si aprono al passaggio della Santa. Si spalancano le pesanti cancellate di ferro. Spunta il diadema, e di seguito la testa e tutto il resto.

-         Siamo tutti devoti tutti!

E’ un urlo solitario, roco, che rintrona dalla cripta verso le navate.

-         Sciò, sciò, sciò, sciò.

Rispondono i devoti, mentre agitano le strisce di lino bianco, e il loro fruscio si mischia con la litania e a momenti la sovrasta a momenti le fa da contrappunto, in un’armonia di secoli che si è qui trasferita.

Per tutto il giorno la Santa viaggia lentamente per tutte le strade e i vicoli.

Cera bruciata – blocchi da sessanta chili, squagliati sulle strade dai devoti che li portano di corsa - e carne di cavallo alla griglia sono gli odori della notte. Dolci e aspri come questa terra. Bancarelle e polvere rossa. Puttane a schiera. Sullo sfondo, il vulcano. “O monte”, lo chiamano qui. Bello, isolato, forte, oscuro, profondo, terribile, misericordioso, come quella volta che tio Pasqualino offrì, su una tavola coperta dai ricami della migliore tovaglia di lino della casa, una brocca di vino e una pagnotta, alla lava che scendeva un metro all’ora, sfrigolante e meravigliosa, e O Monte mandò una colata più veloce e sguincia, che a tre metri dal casotto degli attrezzi deviò quel rotolamento di magma e mostrò di apprezzare l’offerta. Da allora tio Pasqualino ogni mese, lo stesso giorno, sulla stessa tovaglia di lino che, sugli angoli anneriti, porta i segni del pericolo scampato, offre pane e vino alla lava ormai solidificata, ed ha fatto giurare tutti i figli le figlie i generi le nuore e i nipoti che faranno altrettanto dopo la sua morte e fino alla fine dei loro giorni e lo faranno giurare ai loro propri figli e nipoti.

-         E’ femmina.

-         No, è maschio.

-         Il cratere è un buco che vuole essere fecondato.

-         Ma non vedi quella nuvola bianca che ci sta sempre appoggiata sopra? Non vedi come è morbida e formosa? Come lo accarezza e massaggia e succhia? Non capisci che è lei la femmina? E tutte le altre nuvole che ogni giorno fanno la fila?

-         La lava ha il colore del mestruo, e come il mestruo cola da ogni dove.

-         Ma quale! La lava è uno schizzo potente di quando si esprime al massimo, come le volte che la notte i lapilli rischiarano la luna e forse in qualche occasione la fecondano e quella genera piccoli meteoriti che si perdono nello spazio …..

-         Tu parli bene e sei più istruito, ma non mi freghi: è femmina. Ha il ventre caldo e umido. E’ una grande femmina, che non ha ancora trovato il maschio che ce la fa, con lei.

Queste erano le dispute tra Juanito e me, durante la festa della Santa, finché non decidevamo di addentare una bella bistecca di cavallo e goderci il passeggio da qualche muretto.

Un giorno, Emma mi portò a conoscere la zia Renata.

La zia Renata non aveva in realtà alcuna parentela di sangue con Emma; si era occupata di lei quando la mamma era morta, e l’aveva fatta crescere con sua figlia Carletta e suo figlio Diego, nati da due diversi mariti, entrambi morti.

Aveva un bar, allora, la zia Renata, e i tre ragazzini si facevano compagnia e si guardavano a vicenda.

-         Non ti spaventare, Giorgio, quando vedrai dove vive la zia Renata.

Così Emma mi aveva avvertito.

La casa è circondata da un muro di circa due metri di altezza. Il cancello è piccolo, di ferro massiccio, con uno spioncino.

Il viso della zia Renata è pieno, chiaro chiaro e sudato, con rughe profonde sulle guance, dall’alto in basso, e in orizzontale sulla fronte. Spiccano gli occhi azzurri e intelligenti, vivi, su almeno novanta chili di affanni. Ci viene ad aprire sollecita e sorridente. Il nome di Emma pronunciato dalla zia Renata – con la “E” iniziale lunga lunga - è una canzone entusiasta e malinconica.

-         E tu allora sei Giorgio …….

Mi guarda negli occhi allontanandosi mezzo passo, mi abbraccia e sento il benvenuto nelle mani forti che mi stringono le braccia.

-         Emma mi ha detto di te, sai, sì, è come se ti conoscessi da tempo, bene.

-         Anche a me Emma ha parlato di Voi ….

-         No guarda se vogliamo andare d’accordo tu mi dai del tu che sono vecchia ma voglio far finta di non esserlo e poi il futuro marito di Emma è mio figlio ……

Intanto l’ha buttata lì. Con Emma non abbiamo mai parlato di matrimonio.

-         Va bene, d’accordo. E tu che ci fai qui, eh?

E’ un bastardone secco e brutto dal muso simpatico. Mi è arrivato dietro senza che me ne accorgessi e mi si è sdraiato sul piede di botto. Mi chino e lo accarezzo sulla testa grinzosa. Ha gli occhi cisposi. E’ evidentemente malandato.

-         E’ l’ultimo arrivato. L’ho preso tre giorni fa che ansimava in un fosso qua vicino. E’ stato battuto. Sul collo ha i segni di una catena stretta. Povero Bric.

C’è chi crede nella necessità divina delle coincidenze. Chi no. Nella mia mente, un’associazione inaspettata risveglia una tale quantità di collegamenti e attiva tali tempeste che capisco chi voglia attribuirle a disegni divini. Una sola vocale di differenza con il nome del cane preferito della principessa. Lo stesso suono. Lo stesso amore nella voce.

Mi è rimasto il dubbio di aver perso qualcosa di importante, nell’aver sempre considerato gli animali con rispetto, ma una scala “sotto”. Nell’aver attribuito, per lo più, ad incapacità di relazioni umane profonde, l’amore che tanti mostrano per gli animali domestici. Come per una sostituzione. Mi sono sempre chiesto se non sia la debolezza e la dipendenza verso gli umani ciò che attrae. Se non siano le richieste semplici – acqua, cibo, un giaciglio, qualche carezza – che fanno, rispetto all’amore che ci permettono di esprimere, a sedurre.

Dove mai si troverà un essere umano che, raccolto sofferente e indifeso e, come Bric, curato e amato, mostrerà la riconoscenza totale di Bric, correrà dietro al padrone fino a farsi scoppiare il cuore, lo difenderà a costo della vita, gli si accoccolerà ogni sera ai piedi e si scanserà ogni volta che l’umano cambierà posizione, percorrerà centinaia di chilometri senza bussola e ne ritroverà la casa …… dove si troverà un essere umano così? Che non rivendicherà prima o poi il proprio esserci, e con ciò la sua propria ineliminabile individualità e quindi alterità? Che ci restituirà sempre l’immagine di noi che ci piace ricevere?

-         Povero!

La zia Renata apprezza visibilmente il mio interessamento per Bric.

-         Ma adesso venite, vi offro un po’ di acqua fresca ….

La zia Renata ci fa strada nel viottolo che fiancheggia le mura bianche della casa, stretto dall’altro lato dal muro esterno. Dopo pochi metri, sulla sinistra, si apre una specie di patio. Ha tre lati, e i due perpendicolari al viottolo hanno aperture simmetriche: una per la casa di zia Renata e una per la casa della figlia Carletta. Vi bivaccano non meno di dieci cani. Non ho mai visto un tale concentrato di bruttezza naturale. Il più passabile somiglia vagamente a un incrocio tra un coyote e una iena.

-         L’hai notato anche tu, eh, Giorgio? Io non ci faccio più caso, ma se me lo fanno notare – e me lo fanno notare tutti, così ti anticipo – devo ammettere che sono davvero bruttini.

Guardo Emma, che a sua volta mi guarda con aria mista di sfida e soddisfazione.

-         Secondo la zia, quei cani che agli uomini sembrano brutti è più facile che siano trattati male, e anche quando diventano randagi è più raro che qualcuno si curi di loro, e così lei …….

Il loro colore sembra invece omogeneo: quel marrone rossiccio, come se fossero meglio mimetizzabili con la terra di qui. Qualche punta più chiara di beige sporco. Tutti dal pelo corto, dalla struttura tozza. Occhi intelligenti.

Per quanto sia tutto estremamente pulito, l’odore di canile prevale, sebbene misto ad altri odori animali che sul momento non riesco ad identificare.

Entriamo. La zia Renata apre - per lo spazio minimo a farci passare -  la porta a vetri scorrevole, dietro a un pesante cancello in ferro battuto. L’interno è pulito, scuro, pieno di ninnoli di ogni parte del mondo. La temperatura è di almeno 10 gradi di più che all’esterno. Si sente aprire una porta dal fondo della grande stanza. E’ Carletta, la figlia di zia Renata, che vive nella casa a fianco. Le case comunicano dall’interno.

-         Eeeeeemma! Come stai! Come sono contenta di vederti!

La cantilena di Carletta sulla “E” iniziale di Emma è un acuto a salire. Più espressivo che sincero.

-         E tu sei Giorgio! Brava, Emma! Tu sì che sai scegliere gli uomini!

L’entusiasmo e l’apprezzamento sono sinceri come la punta di invidia non dissimulata. Carletta ha avuto un matrimonio infelice, Emma non mi ha mai detto di più.

Una specie di batuffolo dai lunghi peli segue Carletta passo passo, le rotola velocissimo tra le gambe mentre lei cammina. Quando Carletta si ferma Puffy – questo è il nome del cane di Carletta – si accuccia per un momento ansimante poggiando sulla coda, poi scatta all’improvviso in qualsiasi direzione, roteando, come indiani intorno alla carovana, alla caccia di qualche insetto che soltanto lui vede. Le zampette corte lo tengono miracolosamente in equilibrio mentre le unghie stridono sul pavimento di legno nelle curve avventurose che disegna. Di botto si ferma, guarda verso Emma e me, lascia una pisciatina, e infine caracolla soddisfatto verso i piedi di Carletta.

-         Ah ma tu sei un porcelletto, eh!

Dico ammiccando alla pozzetta di urina che è rimasta in bella evidenza.

-         Questa è casa mia, diglielo un po’, Puffy, a Giorgio!

Sistemato. La mia solidarietà verso le due donne è stata presa per intrusione e, anzi, tentativo di prevaricazione verso Puffy. Il vero padrone di casa è lui. Quando vedo Puffy digrignare i denti con aria feroce verso i cani all’esterno, che lo ricambiano, mi spiego anche la temperatura interna: il cancello in ferro battuto non è abbastanza stretto da non far passare Puffy, che prima o poi finirebbe sbranato, e dunque è necessaria anche la porta a vetri che, però, tenuta chiusa, impedisce il riscontro d’aria tra i due lati della casa. La situazione non sembra per niente salubre per il sudore freddo permanente della zia Renata.

La zia Renata ha servito un vassoio con una caraffa e bicchieri di acqua fresca per tutti. Al centro, una calla con le sue foglie carnose quanto i petali rotondi. Emma sta chiacchierando vivacemente con Carletta. Quant’è bella. Non ho mai sentito niente di simile, dentro.

Tuttavia, mi rendo conto che i dieci cani-coyote-iena non bastano, che manca ancora un particolare per giustificare l’avvertenza di Emma circa la casa di zia Renata: i trentacinque gatti – forse trentasei, forse trentasette – di Carletta.

All’ora stabilita usciamo tutti e lo spettacolo è questo: dai tre lati che delimitano il patio sporgono tetti di tegole, sui quali da tempo si aggirano silenziosi i gatti, che hanno imparato l’ora del pasto. Si disputano il posto migliore, che è quello del lato lungo, dove non ci sono le porte di ingresso alle case, perché è lì che Carletta, da una scala a pioli di legno appoggiata alle tegole, lancia i bocconi a grappoli su cui si avventano i gatti. Sotto, i dieci cani ringhiano furiosi. Dentro, Puffy latra feroce. La zia Renata, sempre più pallida e sudata, verifica che Puffy stia ben al di là della porta, aiuta Carletta con il cibo per i gatti, scansa i cani che, famelici e gonfi di gelosia, saltano da una parete all’altra nel vano tentativo di arrivare al tetto. Di tanti che si affannano sui bocconi, succede che almeno un gatto cada giù, e allora Carletta lancia alte grida, scende di colpo dalla scala e si dà a scacciare i cani pronti a farlo a pezzi. Cerco di aiutarla, e anche Emma, ma la confusione regna totale, tra urla cassetti rovesciati polvere fiori spezzati scope brandite. La zia Renata si è seduta esausta, cerea. Carletta stringe al seno il gatto salvato. Trenta e più capoccette di gatto scrutano ansiose dallo sporgere delle tegole. Il pasto sarà completato, come ogni sera. Indimenticabile.

Salutiamo la zia Renata e Carletta.

-         Sei piaciuto!

Mi stringe il braccio soddisfatta e vi appoggia il viso. Sono contento di vederla felice. Il suo sorriso mi illumina.

Ora: non pensate che non mi renda conto della banalità, talora, di queste espressioni, come “il suo sorriso mi illumina”. Eppure, sono queste le immagini che Emma mi suscita. Come per un amore così semplice ed evidente che non ha bisogno di essere impreziosito da parole eleganti o ricercate o insolite.

La nostra casa è colorata. E’ colorata dentro. Il corridoio centrale è tutto bianco. Le tre porte che vi si aprono sono ognuna di un colore diverso.

La nostra stanza da letto è blu. E’ il colore del cielo, del mare. Per Emma e me è il colore dell’amore. Ci sono soltanto un letto con una spalliera di bambù, due comodini e un piccolo armadio. E’ una stanza spaziosa, ariosa, che dà sul verde esterno.

La stanza verde è quella della riflessione, dello studio. Non ho potuto studiare nelle scuole, a parte le elementari, ma ho sempre letto tanto, sin da ragazzo, e adesso faccio addirittura il giornalista. In orbe caecorum …….. ma no, scrivo anche bene, sia in italiano che in spagnolo. E’ il mio studio, con un tavolo largo, su un cavalletto, sempre ingombro di carte.

La stanza giallarancio, infine, è la stanza per i figli. Intanto il primo. Emma è incinta. Sono i colori dell’allegria, della vita. Vogliamo che nostro figlio sia soprattutto contento. E che lo siano quelli che seguiranno. Ne vogliamo tanti.

Certo, adesso so bene che quei colori non sono esattamente quelli che i più approfonditi studi psicologici sull’argomento selezionerebbero. So anche, però, che svolgevano bene il loro ruolo, perché la funzione che noi assegnavamo a quei colori era per così dire incorporata nelle nostre anime, e quindi parlava la giusta lingua, dalle pareti e dalle porte, a chiunque frequentasse quella casa.

Juanito è tra i più assidui, in certi periodi. Perlopiù, quando ha guai con l’ultima ragazza. E questo avviene con un ritmo che Emma ed io abbiamo imparato e quindi facciamo scommesse sulla settimana in cui Juanito busserà, avvilito e ribaldo.

Qui, all’esterno, l’aria è molto pesante. La gente non parla più. Hanno paura. Noi no. Non siamo nemmeno sfiorati dal dubbio, tanto ci sentiamo tranquilli e sicuri.

Mancano due mesi e nascerà.

Fino al mese scorso Emma ha continuato  a lavorare al bar emporio dello zio Raffaele.

Lo zio Raffaele. Si diceva che fosse stato avvocato, da giovane. Dell’uomo di cultura ha comunque conservato l’eloquio forbito e la costruzione delle frasi di chi ha studiato il latino non superficialmente. Tutti, qui, hanno gran rispetto dello zio Raffaele. Anche lui, come la zia Renata, non era un vero zio, per Emma, ma una specie di tutore acquisito de facto – come gli piaceva dire – che l’ha mantenuta agli studi. Ha certo contato non poco, in questa sollecitudine dello zio Raffaele, la sua amicizia per la zia Renata, ma il suo affetto per Emma è diventato quello di un vero padre.

Scarica sacchetti di polvere di pomice, che allora si usava per lucidare le pentole. Una specie di bestia di centonovanta centimetri per cento chili, sudazzato, in canottiera, che lo zio Raffaele ogni tanto ama sfottere - per quanto bonariamente, come è proprio del suo carattere - per la passione sviscerata che nutre per l’ultimo megalomane aspirante capintesta.

-         Ehi, Batista, come se la spassa la moglie del tuo caudillo?

Pesante allusione – la pronuncia ostentatamente allungata della esse iniziale di “spassa” - alle voci che circolano sul giovane amante della pretesa nobildonna.

-         Voi non vi dovete permettere!

-         Su su non te la prendere …

Non è capace di resistere alla battuta, lo zio Raffaele. Gli escono anche quando, come in questa occasione, sa che è più il caso di lasciar perdere.

-         ….. O magari ti piacerebbe prendertela pure tu?

Per non scoppiare a ridere in faccia a Batista, lo zio Raffaele abbassa la testa verso il bancone. Tuttavia, l’incontenibile battere congiunto dei palmi delle mani - che segue alla battutaccia - sulla superficie di legno lucida, dice di più di una risata a squarciagola.

Dal racconto di Emma vedo la sequenza al rallentatore: i cinque chili di un sacchetto di pomice – Batista, come un grosso felino inaspettato, è esploso in perfetto silenzio – si abbattono sul collo dello zio Raffaele.

La polvere fuoriesce dal sacchetto scoppiato e ricade intorno nel colore dei cieli cupi. Lo zio Raffaele, per fortuna, è di buona corporatura. La fronte sbatte sul bancone. Un filo di sangue gli esce dall’orecchio.

Batista passa dalla rabbia allo smarrimento. Si guarda intorno con aria vagamente ebete. Un animale che ha risposto ad un riflesso condizionato.

Ma: potevate immaginare tale reazione ad una battuta in fondo innocua?

Io dico di no. E, infatti, come voi, come me, lo zio Raffaele non lo aveva proprio previsto. E: che cosa dice al mondo, un fatto del genere? Che cosa ci vuole dire Batista? Ci vuole dire ehi voi, io sono sì una bestia da soma, un ignorante, e così mi trattate. Ma: adesso c’è qualcuno che ha parlato al mio cuore e alle mie viscere. Il mio cuore e le mie viscere hanno risuonato insieme, sono rimasti in sintonia. Vedete come hanno reagito, senza bisogno di passare per il cervello? Sappiate che sono pronto a tutto, anche se non ne sono ancora del tutto consapevole. Voi, però, che siete intelligenti e istruiti, dovreste capirlo, voi sì.

Emma si sente venir meno e si affloscia sulla cassa. Non ci sono altri clienti.

Un attimo. Quando Emma si risolleva, la schiena di Batista è appoggiata al muro, le sue palme sono aperte all’indietro, le braccia in basso, come saldate al muro. Il mento di Batista, alzato sul collo grande e largo, obbliga i suoi occhi a stazionare nella parte bassa dell’orbita, per non perdere di vista la lama che lo zio Raffaele gli punta alla gola con la mano destra. Con la sinistra, lo zio Raffaele, si massaggia il collo.

-         Ehi, Batista. Stai bene a sentire. La tua pomice manco mi sfiora. Ma se succede qualcosa – stai bene a sentire ti ho detto! – se succede qualcosa, qualsiasi cosa, a Emma o a mio nipote che sta per nascere, tu sei morto. E adesso vattene.

Lo zio Raffaele torna dietro il banco. Batista resta attaccato al muro come se avesse colla sulla nuca e sulle mani. Infine, si passa una manona sul collo, constata che la testa non è staccata, che pure il collo è tutto intero, e se ne va. Bofonchia vaghe minacce per il giorno in cui il suo caudillo sarà al potere.

A sette mesi è una pancetta. Ben evidente. Si vede, si vede con chiarezza, ma non è ancora una panciona.

 


Juanito (torna all'indice)

Ancora oggi, se chiedi, ti senti rispondere in modo evasivo. E’ un popolo che ha preferito dimenticare. Posso capire. Qualche volta ci ho provato anch’io, a dimenticare, a rimettere tutto alla ineluttabilità del fato. Le donne – come se l’esercizio della memoria fosse una virtù squisitamente femminile – che si ostinano a ricordare, e implacabili tornano ogni mese nella stessa piazza, solo perché la memoria resti, sono sempre più vecchie, sempre di meno. I genitori non hanno raccontato ai figli. I figli non hanno chiesto. E’ possibile, perché è avvenuto, che una generazione sia scomparsa nel silenzio, come per una folata di vento tagliente che abbia decapitato la metà di un campo di girasoli.

La sabbia è di coralli sbriciolati da millenni. Il mare trasparente, e quindi il colore potete immaginarlo, se vedete la sabbia. Il colore di giorno. E il colore di notte.

Ho seguito Juanito, su una barca di suoi amici pescatori contrabbandieri, che hanno base su questo gruppo di isole – non più di un chilometro di lunghezza e non più di quattrocento metri di larghezza ciascuna – scelte per essere fuori dalle rotte.

Succede al tramonto. Forse dipende dalle condizioni della luce, che aiutano la caccia. I gruppi di pellicani, che durante il giorno impigriscono semi-immobili sulle chiglie delle barche sfondate poggiate sul fondale basso, al tramonto si risvegliano. Fanno bei giri larghi e tornano in picchiata a pescare gli incauti pesci innamorati del colore di quell’ora.

I pellicani, si sa, hanno una specie di marsupio nella parte inferiore del lungo becco, dove ripongono il pescato. Il punto è che, quando riescono dal mare, il pesce che hanno sorpreso si divincola in punta di becco, per lo più a perpendicolo rispetto all’asse del becco stesso.

Il pellicano, dunque, fa una prodezza da circo di questo genere: in aria, dà un colpo di collo tale che il pesce vola in su e, quando la forza di gravità riprende il sopravvento, lo aspetta a becco spalancato e lo riacchiappa con una sagace mossa di pelota.

Sennonché, c’è un altro protagonista di questa scena, che finora non ho presentato: il gabbiano.

Il gabbiano sguscia sornione, ed interviene esattamente, con noncuranza e semplicità, nel momento in cui il pesce viene lanciato in aria dal pellicano. Lo afferra al volo – lui non ha bisogno di sistemarselo in qualsivoglia sacca – e planando se lo porta via. Sicché i pellicani – che raramente danno mostra di accorgersi dell’accaduto né cercano in alcun modo di rimediare se non rituffandosi alla ricerca di nuove prede, peraltro abbondanti - pescano finché anche i gabbiani non sono sazi.

-         Furbi, eh, i gabbiani?

-         Eh sì …… certo, devono essere molto abili tutti …

-         I pellicani invece sono proprio coglioni!

-         Generosi?

-         Ma quale generosi!

Strani uccelli, i gabbiani. Ce n’è una specie che depone le uova nel deserto, cento chilometri lontano dalla costa. La temperatura arriva a sessanta gradi. I gabbiani, un mese prima che si schiudano, tornano e per ore ed ore battono le ali durante il giorno per ombreggiare e ventilare le uova. Restano ancora, a protezione, per una settimana dopo che i pulcini sono usciti. Infine, percorrono cento chilometri, vanno a pescare nel ricchissimo oceano e tornano con il cibo per i loro cuccioli. Sono i gabbiani garuma.

Case basse, dai colori vivaci che la salsedine e il vento hanno virato verso il pastello. La ragazza sta appoggiata all’angolo della parete, guarda il sole che scivola nel mare, canta sottovoce. Lo sguardo perso nella profondità di un sentimento che la sovrasta.

Dovremo aspettare un paio di giorni, forse tre, che arrivino i corrispondenti degli amici di Juanito. Siamo d’accordo che ne scriverò alterando i luoghi e le persone, per non renderli riconoscibili.

Nell’attesa, vagabondiamo da un’isola all’altra – i pescatori che ci portano sanno sempre dove quel giorno il mare permette di andare e dove no – a scoprire la spiaggia dai coralli più bianchi, o più rosa, i fondali dai pesci di tutte le forme e i colori, l’incontro con una natura da paradiso terrestre.

Ci tuffiamo dalla barca, in vista dell’isola, e gareggiamo verso la riva – Juanito più agile e veloce, io più forte e resistente – e quando arriviamo facciamo capriole sulla sabbia ci rincorriamo come bambini felici ci facciamo lo sgambetto ci rotoliamo e infine ci arrostiamo qualche granchio accompagnato da ottimo succo di cocco delle palme piegate verso il mare.

Qui siamo lontani dalle cuperie incombenti, che tutti avvertiamo ma alle quali nessuno vuole dar peso e delle quali ognuno fugge l’affiorare della consapevolezza.

-         Andò così, Juanito: avevamo preparato, col principe – io ero una specie di suo pupillo – un pranzo con i fiocchi, all’aperto, sotto al grande olmo. Avevamo fatto tutto noi due, senza servitù né altro. Una cosa da soli uomini.

Stiamo stesi a fumarci una sacrosanta sigaretta nell’ora del sole obliquo.

-         Insomma ci sgargarozziamo per bene con i maggiorenti del paese – sai l’arciprete, il dottore, il farmacista, il maestro elementare, il sindaco …. – a braciole salcicce e fiaschi di rosso….

-         Ci andavate leggeri, eh!

-         Sfondati. Da sfondati.

Il rutto esce al sapore di cocco e mi meraviglio che non sappia di maiale e pepe. Juanito mi imita con uno più forte e per poco non ci strozziamo il fumo in gola dalle risate.

-         Non vidi mai, né prima né dopo, il principe così apertamente allegro. Lui amava poche persone, e le altre fondamentalmente le disprezzava, senza che, tuttavia, mai si mostrasse men che cortese o rispettoso. Né in alcun modo faceva valere il suo rango.

-         Insomma un principe democratico?

-         Sfotti, sfotti tu. No, niente di “democratico”. Superiorità naturale. Niente di più che consapevolezza della differenza. E, quindi, un atteggiamento di fondo se non altezzoso, fortemente distaccato.

-         Sarà…. bhè allora il pranzo?

-         Sì. Ad un certo punto si assenta per una decina di minuti, quando tutti ormai - il panciotto, la cintura e la cravatta allentati - hanno passato i biscotti con il vinsanto e stanno al sigaro. Qualcuno ha slacciato pure i primi bottoni della patta. Torna con un vassoio di carne tonda, fumante, tipo ossobuco ma di metà diametro. “Adesso, anche se siete convinti che non vi entra più niente, dovete as-so-lu-ta-men-te assaggiare questo!”

-         E che cos’era?

-         “Prelibata carne di murena”. Così la presentò il principe.

-         Allora continua, su!

-         Quelli – e io con loro - sono tutti troppo sfatti per mantenere un minimo di spirito critico, e comunque l’odore è ottimo e la soglia della sazietà è stata superata a quel punto che l’unico limite a continuare nell’ingurgitare qualsiasi cosa può essere solo il vomito. Nessuno vomitò, tuttavia. Ne mangio anch’io, dunque. Ha un sapore agrodolce, sono pezzi belli croccanti e accompagnati da abbondante rosmarino e salvia. Mi piace tanto che ne mangio altri due pezzi. Nessuno sfugge. Il principe insiste finché tutti – chi per curiosità, chi per voracità, chi per cortesia – non ne hanno mangiato almeno una fetta.

-         Bhè, è vero, la murena è dolce e grassa …… ma davvero ci sono murene anche dalle parti tue?

-         Certo, credi che solo qui ci sia il mare? Il principe si diverte come un matto. Non l’ho mai visto così allegro. Stappa una bottiglia del rosso delle grandi occasioni e ne versa un mezzo calice a tutti. Tanta solennità viene percepita, e una serie di piccoli aggiustamenti – la giacca chiusa a coprire la patta sbottonata, la cravatta raddrizzata, i capelli ravviati – trasformano lo svacco totale in una congrega di signori allegrotti ma educati. “Brindiamo …….. alle …..vvvvvaaaacche! Alle vacche!” E scoppia in una risata sonora e crassa che fa ammutolire il resto della compagnia, tanto non la risata in sé, ma la sua provenienza, è al di là di ogni possibile aspettativa. Alza il calice, e tutti con lui. “Ahahahah …… un momento, prego ……..” e quelli restano col bicchiere a mezza strada. Piega le gambe allargate e batte un piede. Poi l’altro. Sulla polvere del terreno secco. Ad ogni battuta ride. E ride. “….Bbrrrrìn-dià-mo … brìn-dià-mo àn-che …………. ài pàs-tò-ri! sì, ai pastori!” e ride scoppiettante. “Anzi: alla pastora!”. Ride ancora scuotendo la testa. “Anzi anzi, anzi: mi correggo: alla impastora! alla impastora!” Ripete “ìm-pàs-tò-ra, ìm-pàs-tò-ra” urlando a tutta voce e prosegue a battere un piede sotto ad ogni sillaba, e poi l’altro – “ìm—pàs—tò—ra!” - sempre a gambe larghe, e tuttavia senza che una goccia del prezioso vino si perda. Resta senza fiato e lacrima dal gran ridere. Ho paura che si senta male di brutto. Infine si ricompone. Alza il calice serio, gira lo sguardo ad incontrare gli occhi di ciascuno, e assapora lentamente tutto l’aroma dell’eccellente rosso. Anche gli altri bevono. E’ sceso uno strano silenzio imbarazzato. Girano sguardi circospetti e preoccupati. Voglio dire preoccupati per lo stato del principe.

-         E tu, che facevi, visto che eri il suo cocco?

-         Io ero il più preoccupato di tutti. Non l’avevo mai visto così. Gli vado vicino e gli chiedo se si sente bene. “mai stato meglio, Giorgio, mai stato meglio, ti assicuro. Vieni, anzi venite a vedere, bhè ormai posso dirvelo ……” e scoppia a ridere che si deve tenere la pancia e appoggiarsi al muro, gli occhi appannati. Si avvia deciso verso il retro del palazzo, e tutti rispettosamente in fila. Fa caldo. Il sole è alto e c’è poca aria. Il vino e il cibo ingurgitati fanno il resto. Ancora da lontano vedo tre grossi cinturoni pendenti, come inchiodati alla parete di legno della stalla. Il principe vi si dirige deciso e, quando vi arriva, si gira verso il gruppetto che segue sfilato e allarga le braccia, teatrale. Poi si scosta di lato e, con mossa graziosa alla arlecchino indica i tre cinturoni. Da vicino vedo meglio. “Sì, avete mangiato la delizia delle delizie, carne che si è nutrita solo di latte destinato ai vitelli, e preso direttamente dalle tette delle nostre vacche.” Sbianco. Riconosco le pelli appese. Il maestro elementare vomita silenzioso in un angolo. L’arciprete si fa il segno della croce e guarda verso il cielo. Il farmacista si appoggia alla staccionata, mano sulla fronte, e sussurra “no, non è possibile …. l’impastoravacche!”. Il medico, che ancora si guardava intorno inebetito, si gira verso il farmacista; le parole che ha sentito gli ronzano come suoni indistinti – fonemi che girano nell’aria senza significato – e a mano a mano che le sillabe vincono la loro lotta con le nebbie del vino, riprendono il loro ordine e la loro posizione, quello strabuzza gli occhi, realizza, si ricompone. Mette la mano destra sotto l’ascella sinistra e tira fuori il revolver.

-         Gli ha sparato?

-         Tu che dici?

-         E che ne so? continua allora, dai!

-         Mi sono messo in mezzo. I suoi occhi dicevano “adesso ammazzo te che tanto sei d’accordo col tuo principe e poi ammazzo lui”. Era furibondo, per essersi fatto fregare a mangiare carne di serpente, ma di quella rabbia fredda e determinata degli assassini, non della persona per bene che è colta da un momento di follia. Mi sono visto morto. Innocente. Eppure non era coraggio, il mio. Era come se ci fosse una sola cosa da fare ed io la stavo facendo, senza scelta possibile.  Ho fatto due passi verso di lui, con la mano sinistra gli ho preso il polso destro. Mi ha salvato la paura che ha letto nei miei occhi. E’ stata la mia paura a riportarlo tra di noi. Le sue pupille, da ghiacce, si sono arrossate di sangue. Si è fatto sfilare la pistola, si è girato ed è scomparso alla vista di tutti.

-         Sai, volevo ammazzarti, quella volta che ci hai preso la cintura del cappotto dello scemo.

Juanito mi guarda serio.

-         Vuoi dire di Pedro?

Ricambio lo sguardo serio.

-         Sì, anch’io ti avrei ammazzato volentieri, quella volta.

Restiamo a fumarci una sigaretta stesi finché l’oro del tramonto non allunga le ombre.

La permuta si conclude rapidamente. Quelli arrivano con un peschereccio, restano a motore acceso, nemmeno calano l’ancora. Gli amici di Juanito – sono in tre - li raggiungono a remi. Accettano che li accompagniamo anche Juanito ed io. Juanito sale con i due incaricati dello scambio. Il terzo resta con me a governare la barca. Su, i due amici di Juanito controllano. Intanto, Juanito parlotta con un tipo che lassù sembra del tutto fuori posto, con il cappello alla Borsalino e giacca e cravatta. Ridiscendono tutti dopo pochi minuti nella barca e lo scambio avviene a metà della scaletta di corda che scende sulla fiancata destra della barca più grande. Sono tutti soddisfatti. Juanito è cupo.

Ho molta voglia di Emma. Da quando è incinta non l’ho mai lasciata sola per più di un giorno. Mi piace vedere la sua pancia che cresce. E’ bello fare l’amore in tre. La passione è intatta e quel di più di attenzione, di remora, di sollecitudine che servono a tener conto di quel grumo di vita che sta definendo la sua propria, unica forma, accrescono la tenerezza ed esaltano la vicinanza.

Juanito vorrebbe restare ancora un paio di giorni a sguazzare da queste parti – ha anche trovato una granditette che lo guarda sognante – ma lo convinco a tornare. Un altro cuore spezzato.

Durante il viaggio di ritorno Juanito è insolitamente tetro e spigoloso.

-         Ehi, Juanito, non mi dire che in cinque giorni ti sei innamorato!

-         Ma che cazzo dici.

Così, senza punto esclamativo. Teso. Freddo. Non è da lui, per solito esuberante, pronto alla battuta, macho come tutti qui.

-         Ma insomma, che ti succede? I tuoi amici hanno fatto i loro affari, noi ce la siamo spassata – tu direi più che spassata, con la tettona – io ho buon materiale per i miei articoli ……..

-         Eh….. i tuoi articoli …… sì …… farai meglio a scrivere di contrabbandieri …..

-         ……….. E della totale e voluta assenza di qualsiasi controllo, mentre strombazzano dappertutto della lotta alla delinquenza …….

-         ……. Giorgio ….. è meglio che stai attento, tu …….

-         Che cazzo vuoi dire con “stai attento”, eh?

Non si riesce a mettere insieme più che brevi scambi come questo che Juanito si richiude in un silenzio oscuro. Chiude gli occhi e fa finta di dormire appoggiato al sedile di legno del treno, nell’ultimo tratto del viaggio di ritorno. Chiudo gli occhi anch’io e mi rassegno a passare in silenzio il tempo che manca alla stazione finale.

Emma non c’è, ad aspettarmi alla stazione. E questa non è una sorpresa. Non sa il momento esatto del mio ritorno. E’ che fare fantasie non costa niente e quindi avevo sognato di scendere e di avvistarla in cima al binario, col pancione tondo, il suo sorriso, un abbraccio.

Emma non c’è, a casa. E questa è una sorpresa. Sono le otto di sera. A quest’ora è sempre stata a casa. Ho paura che si sia sentita male, che il bambino abbia avuto qualche problema. Telefono alla zia Renata. Sì, l’ho sentita verso l’ora di pranzo, tutto bene, magari è andata da qualche vicino per una testa d’aglio ….. Carletta sta bene, grazie, e anche le tribù di cani e gatti, grazie, Giorgio. Bene - mi sento sollevato – Ci risentiamo. Ciao.

Telefono allo zio Raffaele. Non risponde nessuno al bar. Anche questo è strano.

Sono preoccupato. Mi ripeto che non ce n’è motivo ma sono agitato. Telefono a Juanito ma non c’è. Aspetto che arrivino le nove e decido di andare a chiedere alla casa di fronte. Mentre avanzo sul vialetto di sassolini che porta all’ingresso principale percepisco il movimento di uno scuro che si chiude. Suono insistentemente ma nessuno risponde. Sono sicuro che c’è qualcuno dentro. Suono ancora. Busso. Torno indietro.

Le strade sono insolitamente quiete. Nessuno dei ragazzini che di solito scarrucolano con quelle tavole di legno sotto alle quali hanno applicato i cuscinetti a sfera, che cavalcano gareggiando per la discesa fino a miracolose curve a novanta gradi al termine del marciapiede. Non un vero silenzio, ma come un insieme di suoni diversi da quelli d’abitudine a quest’ora.

Rientro a casa. Non so che cosa pensare. Sono preoccupato. Di solito non tendo ad essere ansioso, penso sempre che le cose possano andare per il meglio. Eppure Emma non si sarebbe allontanata da casa così, senza lasciare almeno un biglietto con un recapito. Non so che cosa pensare.

-         Giorgio, ma dov’eri? hai saputo?

E’ don Isidoro, al telefono.


Don Isidoro (torna all'indice)

E’ diventato prete a più di vent’anni. Non come i ragazzi poveri che entrano in seminario da piccoli per sottrarre alla famiglia una bocca da sfamare. Biondo stopposo, tarchiato, con le cosce larghe da montanaro. L’ho conosciuto sul vulcano. Era stato l’unico a non piegarsi dalle risate quando mi ero rotolato nudo, a quattromila metri, sulla sabbia calda del cratere.

Non ci volevo credere, che fosse prete. Allora non andavano in giro senza tonaca o altri segni distintivi. Cercava una donna che fosse capace di saltare da un pizzo all’altro delle montagne; non l’aveva trovata, e si era fatto prete. Almeno così raccontava, celiando ma non troppo.

Non ha mai cercato di convertirmi, nelle lunghe discussioni notturne, dopo che avevamo fatto amicizia. Sa che, se pure mai ci fosse una possibilità, questa potrebbe venire solo dal suo esempio di vita, non certo dalle parole.

Anche ad Emma piace. Ha voluto che fosse lui a sposarci. Non me la sono sentita di mantenere il punto. In cambio, ho ottenuto che nostro figlio sceglierà lui se e quando farsi battezzare. Don Isidoro ha benedetto anche questo nostro patto, sicuramente poco ortodosso per le sue regole. E’ un prete così.

Siamo diventati compagni di escursioni; con Juanito formiamo un bel terzetto di scapestrati, sia pure senza mai mancare di rispetto alla montagna. Rispettarla, è la condizione per restare vivi, in quei sentieri che si perdono all’improvviso nel niente.

Mi sta aspettando sull’uscio. Non ride come al solito con le due file di denti squadrati e bianchi.

-         Vieni dentro, Giorgio.

Richiude subito la porta e mi conduce sui banchi della chiesa. E’ in un capannone di cui si capisce la destinazione, da fuori, solo per la grande croce che è appesa sulla parete esterna.

Siamo quasi al buio, solo pochi lumini che i devoti hanno lasciato ai vari santi e madonne sparsi ai lati.

-         Insomma, che è successo?

-         Ma tu da dove vieni, dove sei stato nell’ultima settimana?

-         Sono stato con Juanito alle isole ….

-         Ah.

E tace. Sto per scoppiare.

-         Senti Isidoro, Emma non è in casa, lì intorno ……. anzi …… anche qui, mi rendo conto ……. c’è un’aria strana, io sono preoccupato … tu mi telefoni in quel modo e adesso vuoi fare conversazione su dove sono stato ……. si può sapere che è successo?

-         Non sai niente, dunque.

Adesso sbotto.

Mi anticipa. Riprende subito.

-         Un colpo di stato. Due giorni fa. Decine, forse centinaia di arrestati. Forse più di mille. Sono arrivati in quattro per macchina e li hanno presi nelle case, all’ora di cena. Nessuno ne sapeva niente. Si sono preparati bene. Adesso tutto sembra tranquillo, come se niente fosse. Nessuno ne parla. Hanno paura.

-         E che c’entra con Emma? Dov’è Emma. Tu sai dov’è Emma?

Gli sto stritolando il braccio con entrambe le mani.

-         No. Non si sa niente di nessuno.

-         Ma come, li avranno portati ai commissariati, alle prigioni ……

-         Te l’ho detto, non si sa niente di niente.

-         E Emma? Dove sta Emma?

-         Devo dirtelo, Giorgio: io non ho elementi di certezza di nessun genere, bada, è solo una mia deduzione …..

-         Allora?

Sto urlando.

-         Piano, fa piano, questa è sempre la casa di Dio ……

Sorride. Mi mette la manona irsuta di lunghi peli chiari sul braccio.

-         Io temo che siano venuti a cercare te ed abbiano portato via Emma.

Non mi arriva subito. Non mi arriva subito. Quando arriva mi rilasso, come se la tensione si allentasse per una prima possibile giustificazione di un evento – l’assenza da casa di Emma – altrimenti inspiegabile. Il calo fa sentire tutta insieme anche la stanchezza del viaggio, come se il corpo si volesse rilassare. Non è ancora arrivata tutta, però. Quando comincio a dare rilievo alle parole di Isidoro mi sento schiantare da quel peso. Ricordo che poco fa ho utilizzato, senza dar loro importanza, le parole “commissariato”, prigione”. Dunque forse Emma, incinta di sette mesi, è prigioniera. E non si sa di chi e non si sa dove. Mi attacco a quel forse. Ci dev’essere un’altra spiegazione. C’è sempre almeno un’altra possibilità.

-         Riprovo a chiamare Juanito, fino a due ore fa non c’era, lui conosce tutti e sa sempre tutto di tutti……..

-         No, meglio di no, Giorgio.

-         Perché no? Ci siamo lasciati nel pomeriggio di ritorno dalle isole….

-         Dammi retta, è meglio di no. Non è prudente.

-         Vuoi dire che i telefoni potrebbero essere controllati? Il tuo, addirittura?

-         Non è prudente. Dammi retta, Giorgio.

-         Ma insomma parla chiaro, è tutta la sera che dici e non dici, non è il tuo modo, non ti riconosco, Isidoro, che ti prende?

-         Che mi prende, dici ….. hai ragione ……. ma adesso cerchiamo di pensare a come cercare Emma.

-         Sì, sì, certo …….

Sono confuso. Il mio cervello, di solito pronto a collocare tutte le informazioni nelle scatolette giuste, non funziona come si deve. Fa vagare segni, oggetti, persone, come in un ambiente privato di gravità, con suoni indistinti e voci che vogliono ciascuna prendere il sopravvento, e odori di mare di arrosto di profumo di Emma di olio rancido pure mischiati.

Meglio stare fermo, quando è così.

Facile a dirlo. E Emma? Devo trovare Emma.

Come posso stare fermo?

Meglio stare fermo, meglio lasciare che emerga dall’accozzaglia di voci quella significativa, meglio aspettare di individuare l’odore prevalente, meglio dare il tempo alle cose di prendere la loro posizione.

-         Eeeeeemmmmmmaaaaa!!!

Mi rendo conto solo dall’eco nello spazio vuoto, del mio urlo. Io non sono così. Io sono un uomo forte, razionale. Io non ho mai perso la testa in questo modo. Che cosa mi succede? Non è letteralmente “successo niente” di effettivo.

Si tratta di timori, sospetti, dubbi.

Si tratta di Emma. Ho sempre saputo di amarla. Amarla è qualcosa di naturale, fa parte del paesaggio quotidiano.

Il solo essere sfiorato da un timore – che dentro di me sto ancora respingendo, ma che fuoriesce prepotente, disperato, implacabile – per la felicità la tranquillità la serenità di Emma mi travolge a tal punto?

Don Isidoro mi abbraccia forte. Il suo contatto contribuisce a far tornare la forza di gravità nel mio cervello. Ora l’odore è quello della sua tonaca infeltrita. L’immagine è il pavimento di cemento della chiesa. Il suono è quello delle parole di Isidoro.

-         Giorgio. E’ una situazione molto brutta. Dobbiamo essere noi stessi prudenti, se vogliamo aiutare i nostri cari. Lo capisci, questo, sì?

Adesso mi scuote per le spalle e mi guarda negli occhi. Non mi è entrata ancora tutta dentro, l’informazione. Pure, comincia a passare la consapevolezza che non voglio vedermi come uno dei pezzi che vagolano nel vuoto pneumatico senza peso.

-         Che facciamo, Isidoro?

-         Ora è notte. Non gira nessuno. Dobbiamo aspettare almeno domattina. Chiederò in giro. Tu, invece, devi stare nascosto.

-         Ma perché? Perché dovrebbero avercela con me?

Certo, il giornale. Le denunce delle ruberie, delle inefficienze mirate a proteggere i potenti. Oh, insomma, un piccolo giornale, di scarsa influenza. Qualche volta mi sono detto che la soddisfazione di scriverlo e di vedere i miei pensieri oggettivati sulla carta era maggiore della loro effettiva incidenza.

-         Giorgio, ascoltami, da quello che ho sentito hanno fatto un’ammucchiata in cui per non sbagliarsi hanno messo dentro di tutto ……. come vuoi che funzioni una cosa così ……. piccole spie di quartiere che redigono elenchi, alcuni buoni organizzatori che non si mettono a sottilizzare quando è in gioco quello che per loro è bene della Patria ……

-         Ma Emma che cosa ci poteva entrare?

-         Te l’ho detto. L’unica spiegazione plausibile è che cercassero te. Magari avevano solo un cognome. Emma ha il tuo cognome. In una situazione così – immagina queste bande che girano in macchina con elenchi scritti malamente, nomi storpiati …..

-         Possibile?

-         Temo di sì. Da una parte “spero” di sì. Spero che facciano, che stiano facendo dei controlli, e che si rendano conto degli errori, anche dal loro punto di vista.

-         Certo. Questo potrebbe valere per Emma. E tutti gli altri?

Qualcosa comincia a riandare al proprio posto, nel mio cervello. Dentro di me si comincia a ricomporre un equilibrio.

Isidoro mi appoggia le manone sulle spalle. E’ sollevato di vedermi tornare tra i raziocinanti.

Decidiamo di risparmiare le energie che se ne andrebbero se ci mettessimo a scambiare le congetture che ci attraversano. Fatico ad addormentarmi, ma poi crollo secco.

L’indomani, molto presto, sappiamo che anche lo zio Raffaele è stato preso. Il ragazzo del bar, che passa la mattina, dice che qualcuno là intorno sostiene di aver riconosciuto Batista tra quelli che sono scesi dalla macchina.

Ci scambiamo poche parole, con Isidoro: lui andrà il giro a chiedere – per un prete dovrebbe essere più facile sia porre domande sia ottenere qualche risposta – ed io mi terrò in disparte.

Esce subito dopo.

Osservo la sua raccomandazione di prudenza per quasi mezz’ora. Non riesco a stare fermo.

Vado dalla zia Renata, a sentire se ha notizie di zio Raffaele, a vedere come sta, a farmi ripetere come è stata l’ultima telefonata con Emma.

E’ inconfondibile l’odore di cani e detersivo che emana dai muri della casa di zia Renata. Busso a lungo. E’ più diafana del solito. Carletta non c’è. Si è presa una delle sue misteriose vacanze con uno dei suoi poco misteriosi amanti. Si è portata dietro Puffy, naturalmente.

La zia Renata è rimasta reclusa con la truppa di cani e gatti. Chiama ciascuno per nome. Non so come faccia a riconoscerli. A me sembrano, specie i gatti, tutti eguali.

Mi accoglie premurosa, come sempre.

-         Vieni, Giorgio, vieni.

-         Ciao, zia Renata.

Sembra incredibile che da tale pallore possa emanare tanto sudore trasparente che le copre la fronte le guance il collo le braccia le mani….

-         Come mai da solo?

-         Oh zia Renata, non sai niente nemmeno tu?

Le parti sono invertite. Adesso mi metto a fare la parte di don Isidoro …… capisco ora il suo fare attenzione a come dirlo, ai tempi ….

-         Di che cosa, Giorgio?

Mi sta portando un vassoio di latta a colori sgargianti con su una caraffa trasudante frescura, un bicchiere, un fiore disposto di lato. Una vera signora.

-         Hai sentito lo zio Raffaele, ieri?

-         No, ieri no …..

-         Oggi?

-         Nemmeno …. ma Giorgio, siamo vecchietti noi, mica come i fidanzatini che si devono sentire tutti i giorni…..

Sorride di quel bel sorriso triste di chi ha visto tanto mondo. La zia Renata è stata, decenni fa, moglie di un ingegnere che costruiva ponti e lasciava in giro donne incinte, ripartendo dopo ogni inaugurazione per una nuova impresa. E’ morto da tanto tempo. Della sua morte non ho mai sentito parlare. Né del momento, né del luogo, né delle circostanze. So solo che Carletta era appena nata, o forse stava per nascere.

Sorrido anch’io. Mi rabbuio di botto. Me ne rendo conto dal cambiamento di espressione della zia Renata. Mi piego verso di lei, le prendo le mani, anch’esse dense di sudore ghiaccio.

-         Sembra che li abbiano presi, zia Renata. Hanno preso sia Emma che zio Raffaele.

Ha capito. Sa di che cosa parlo. Era nell’aria, anche se nessuno – come per esorcismo o scaramanzia – ne parlava. La zia Renata ha capito. Si affloscia sulla sedia di vimini e bambù. Mi guarda. La disperazione che emana dai suoi occhi è qualcosa di nuovo e sconvolgente, che mi costringe a tenere a bada il magma che mi sta prorompendo da dentro.

Il viso della zia Renata fa salire di diversi gradi la scala della mia paura, come per una conferma autorevole – in quanto proveniente dalla sua esperienza di vita – delle mie peggiori preoccupazioni.

I cani hanno smesso di latrare.

I gatti scivolano in silenzio tra le tegole della sporgenza del tetto.

La zia Renata si passa il fazzoletto sulla fronte. Sta per dirmi “sta tranquillo, Giorgio, andrà tutto bene”. Invece si sporge in avanti e dalla sua bocca esce un fiotto improvviso di vomito. E’ rosso. Devono essere i preziosi succhi di mirtillo della Finlandia di cui porta rifornimenti l’amante pilota di aerei di Carletta. La zia Renata avrà esagerato, ieri sera.

E’ sangue.

La zia Renata, con un movimento quasi automatico, è tornata appoggiata allo schienale della poltrona. Le palpebre sono aperte, ma delle pupille è visibile soltanto il semiarco superiore, il resto annegando sotto alla guancia.

-         Oh cristo! zia Renata! zia Renata!

Intanto, come poi mi raccontò, la prima tappa di Isidoro è dal suo vescovo.

-         Non sei il primo, figliolo. Dobbiamo pregare la misericordia del Signore, è un momento difficile, molto difficile.

-         Eccellenza, sono scomparse così, dall’oggi al domani, persone per bene, buoni parrocchiani ……. dove sono? come stanno?

-         E’ veramente un momento difficile, don Isidoro ……. stiamo cercando di metterci in contatto con il ministero, abbiamo buoni contatti anche nella direzione ……

-         Eccellenza, non possiamo restare inerti! I fedeli si aspettano che noi li difendiamo, che ci preoccupiamo per loro …..

-         Certo, certo, don Isidoro, tu sei un prete generoso, ma ci sono momenti in cui è bene esercitare la virtù della prudenza ……

-         Eccellenza, che cosa diciamo ai nostri fedeli?

-         Che stiamo facendo tutto il possibile. Per il meglio. E di avere pazienza, di avere pazienza, di pregare, di confidare nella misericordia del Signore.

-         Eccellenza, i figli vogliono sapere dei padri, le madri dei figli, le spose dei mariti ……. hanno diritto di sapere dove sono i loro cari, come stanno …..

-         Prudenza, prudenza, don Isidoro, prudenza a parlare di diritti ….. ho paura che si sia esagerato con i diritti e sia mancato lo spirito del dovere, negli ultimi tempi …… non mi sorprenderei se ….

-         Se? Eccellenza?

-         Lascia stare, lascia stare, don Isidoro ….. ma dimmi, c’è qualche tuo parrocchiano che ti sta particolarmente a cuore?

-         Veramente, Eccellenza …..

Non se la sentì di fare nomi. Me lo raccontò con sforzo, temendo che potessi non capirlo. Scuoteva la testa, per qualcosa in più, per qualche pensiero sotterraneo che, oltre al suo spiccato senso di equità e giustizia, lo aveva indotto a non fare nomi specifici al suo vescovo. Don Isidoro non lo disse. Io non glielo chiesi. Pure, lo conoscevo troppo bene per non capire che, dolorosamente, non si fidava del suo vescovo.

Sono passati dieci giorni. Ancora nessuna notizia né di Emma né di zio Raffaele. Sto in ospedale.

La zia Renata se ne sta andando appresso a un ictus. La sua proverbiale tenacia renderà più dolorosa la morte.

La zia è vissuta molto, a suo modo pienamente, attiva, godendo ad ogni primavera dei fiori che sbocciavano e arrabbiandosi ad ogni autunno delle foglie del vicino che cadevano nel suo giardino.

Il respiro di zia è affannoso: respiro cerebrale, mi hanno spiegato.

Stanze a sei letti.

Due letti più in là, Manola, una vecchietta spagnola, senza nemmeno un dente che sia uno e con la scucchia a befana, ha l’aria sempre contenta, specie all’ora dei pasti, quando si avventa sulle vivande portate dalle signore AVO (Associazione Volontari Ospedalieri). Gorgogliano giulive. I malati sono comprensivi e le sostengono, nel loro bisogno di essere utili. Manola ha un barattolo di marmellata di ciliege che infila pure nella minestrina di “dato”, come dice. E’ così bella nella sua allegria che mi è piaciuto collocarla dalla parte dei nostri nella guerra civile spagnola, quando doveva essere appena una ragazza.

Manola tossicchia ad intervalli regolari. Sembra andare a tempo con il lamento, cadenzato dal ribollio dell’ossigeno, della donna enorme, nella fila di letti di fronte. E’ talmente grossa che non è in grado di spostarsi da sola nemmeno di fianco.

Il lamento, le tossette, i vocalizzi delle signore AVO, il respiro cerebrale, il fischio dell’ossigeno: sono strumenti e partitura dello stesso pezzo doloroso e vitale.

Solo una suorina ha il privilegio di una stanza singola. Età indefinibile, tra i quaranta ed i sessantacinque. Viso roseo. Sempre sorridente.

Sono dieci giorni che la zia Renata è in ospedale.

La suorina è entrata da un paio di giorni. Mentre passo mi chiama per farsi avvicinare la bottiglia dell’acqua.

-         Sapete, io sono una suora di clausura, non potrei parlare con voi..

-         Come volete. La bottiglia la lascio qui o la rimetto nell’armadio?

-         Oh, grazie, grazie, potete lasciarla qui …. grazie …. voi come mai siete in ospedale?

-         Mia zia. E’ stata colpita da un ictus.

-         Che cos’è un ictus? Le è caduto addosso?

Resto incerto se mi sta prendendo in giro o se sta sfoggiando quell’umorismo che vorrebbe essere bonario, tipico dei collegi e delle istituzioni chiuse.

-         Un ictus è una vena che scoppia nel cervello.

-         Oh…..

Sposta la mano a coprire la bocca. E’ preoccupata. La mia risposta deve risultare dura. Sente di avermi arrecato dispiacere ma non ne capisce la ragione.

-         E’ in coma da dieci giorni. E voi, che cosa avete fatto al dito?

E’ l’unico segno visibile del suo trovarsi qui. Una evidente fasciatura sull’indice della mano sinistra.

-         Non lo so. Il dottore dice che ho mangiato troppi dolci!

Ride. Comincio a rendermi conto. E’ come una bambina di dodicianni. Non è mai uscita dal convento. Mi piace parlarci.

-         Troppi dolci …. che dolci mangiate, in convento?

-         Oh io sono brava, sapete, ne facevo tutti i giorni, e le sorelle li vendono nelle ruote ai visitatori, sapete loro mettono i soldini da una parte, la sorella mette i biscotti dall’altra, la ruota gira e il visitatore prende i biscotti e la sorella prende i soldini, sapete, noi viviamo di questo, e io faccio biscotti molto buoni ….

E’ tutta fiera. Diventa triste all’improvviso e sembra sul punto di piangere.

-         Che forma hanno i vostri biscotti?

Si ravviva.

-         Oh tutte le forme; prima usavo le formine di animali – sapete cani, scoiattoli con la codona, farfalle … - ma poi ho imparato a dare io la forma alla pasta, ecco, così ….

Fa il gesto con le mani. Lo sguardo torna sul dito offeso e ridiventa scura, crucciata.

-         … E adesso chi li farà i biscottini per i visitatori? Ah ma con quella confusione dell’altra sera mi sa che per un po’ i visitatori non verranno….

-         Che cosa è successo l’altra sera?

-         No, no, non mi fate dire, io sono di clausura, non posso parlare con nessuno, la madre superiora si è raccomandata, quando mi ha accompagnato qui …

-         Non vi preoccupate, io non dico niente a nessuno.

La faccetta rosea diventa birichina. Nemmeno otto anni, altro che dodici. Chissà, forse la sua è stata, e forse è, una vita serena.

-         Davvero? Sì, e poi non c’è niente di male, sono sicura, in fondo abbiamo solo aiutato una donna con la panciona….

-         Quando?

Sono già all’erta. In una frazione di istante. Non ho fatto in tempo a far scattare l’allarme che sono totalmente vigile. Perciò il mio “quando?” è uscito così semplice, tranquillo, normale. La suorina non ne potrà percepire il tremore e l’affanno che gli sottostanno.

-         Prima che venissi qui, qualche giorno prima forse …. hanno bussato di notte ….  io li ho sentiti perché la mia camera è sopra al portone, ma bussavano così forte che mi sa che hanno svegliato tutto il convento! Era una macchina scura, hanno bussato forte, tante volte …

-         Vi siete spaventata?

Mi sorride complice.

-         No, spesso la notte io mi arrampico sul tavolo e guardo – le nostre finestre sono in alto, sapete – le strade, le civette che attraversano, le nuvole che passano davanti alla luna ….  quella sera hanno bussato forte forte.

-         Erano in tanti? Facevano un gran baccano, eh!

-         Sì, sì, facevano proprio un gran baccano, avete detto bene! Ho sentito che si apriva la porta della stanza della Superiora – la riconosco perché è quella più pesante, si riconosce quando si richiude – e ho sentito i passi della Superiora.

-         La Superiora si sarà spaventata, ad essere svegliata così di notte!

Mi guarda seria, incredula.

-         La Superiora non si spaventa mai di niente! La Madre Superiora veglia su di noi sorelle e ci protegge, con l’aiuto di Dio.

Si fa il segno della croce.

Entra una delle signore AVO con un sorriso smagliante di rossetto cremisi.

-         Oh suor Ignazia, come state? Voi potete andare, adesso.

L’ultima frase è diretta a me. Con l’aria che avrebbe potuto usare con il suo maggiordomo. La strangolo subito o aspetto che esca, per non turbare la incolpevole suorina?

-         Voi sapete che suor Ignazia è una suora di clausura, vero?

Ora è severa, oltre che altera.

-         Arrivederci, suor Ignazia.

Maledetta oca.

Vicino alla zia Renata sta un’infermiera. Una mai vista prima, ma forse è una dottoressa. Le sta sentendo il polso.

Da giorni un rantolo senza coscienza. L’ultima resistenza della tenacia tignosa di una vita di epiche inimicizie e affetti assoluti. Nessun segno di conoscenza, in questi dieci giorni.

L’infermiera mi guarda.

-         Lei è un parente?

-         Sono il nipote, sì. Sta così da dieci giorni.

-         Sta finendo. Non ha più percezioni sensoriali. Il battito sta calando. Sta morendo. Statele vicino.

Mi sono chinato e, un momento prima, ho potuto sussurrarle all’orecchio ti voglio bene. Un momento prima dell’ultimo respiro. La bocca è rimasta semiaperta sulla lingua secca stanca di lottare.

E’ morta con me che le tengo la mano. Il mio cuore si riempie di tenerezza, all’idea che io possa avere la sua fortuna: morire con una persona cara vicino.

Sono grato ancora oggi a quella infermiera. Parlava con tono professionale, diceva cose terribili ma con umana naturalezza. Dovrei essere grato anche alla signora AVO, per avermi permesso di esserci, mentre la zia Renata smetteva di respirare.

Sono state giornate convulse. Don Isidoro dice che per me è stato un rischio anche solo stare vicino alla zia Renata.

Qualcuno è stato rilasciato ed è tornato a casa. Ho bussato ad ogni porta dietro alla quale sapevo che qualcuno era tornato. Pochi hanno voluto vedermi. Nessuno ha parlato. Né di chi lo aveva preso, né di dove era stato portato, né di come aveva passato quei giorni, né di chi aveva incontrato. Niente di niente. Come piombati da un giorno all’altro in un mondo rifatto che è cresciuto sotto e ha sostituito il precedente. Le stesse persone, estirpate da un paesaggio e poco dopo ripiantate in un nuovo paesaggio, sono altre. E tutto così in fretta. Ancora oggi non mi capacito, non tanto degli eventi, quanto della subitanea, pressoché totale, generalizzata adesione al cambiamento.

Del resto, è l’adattabilità, la capacità mimetica, ciò che ha reso noi umani – unica tra tutte le specie – capaci di abitare la terra in tutti i suoi angoli e di avventurarci oltre.

Mi sto adattando a ciò che era l’impossibile per definizione. La mancanza di Emma. Mi sono ritrovato – a momenti - ad odiarla. Per avermi costretto a continuare a vivere.

Per avermi tirato fuori questi miei sentimenti così brutti. Anche per questo, qualcuno dovrà rispondere.

All’uscita dell’ospedale mi aspetta don Isidoro. Impolverato dalle pedalate su e giù per la città e i sobborghi allungati. Gli occhi rossi di chi non dorme da chissà quanto.

-         E’ morta.

-         Era una donna buona. Il Signore l’accoglierà volentieri.

-         Le stavo accanto, mentre moriva. E’ stata una cosa bella, esserle vicino.

-         Giorgio, ascoltami, adesso devi fare in fretta, non c’è tempo.

-         Senti, Isidoro, nella stanza singola c’è una suorina un po’ tonta ….

-         Giorgio, ho visto Juanito.

-         Ah, finalmente! Che fine aveva fatto? Avevano preso pure lui? Come sta?

-         Lui sta bene, Giorgio.

-         Bhè, e allora, che fa? Dove è stato, tutto questo tempo?

-         Mi guarda fisso nel bianco degli occhi.

-         L’ho visto alla caserma. Tiene lui gli elenchi.

Don Isidoro lo sa da sempre. Me lo dice solo adesso perché solo adesso lo ha toccato con mano. Lo sa da sempre. Io sprofondo nell’abisso della mia cecità, come se l’improvviso sprazzo mi facesse vacillare. Eppure non lo voglio ancora sapere del tutto.

-         Gli elenchi di che?

Riconosco la mia voce brusca, insincera.

-         Te ne devi andare, Giorgio.

-         Ma di che parli? Ma di che parli? Dove sta Emma? Di che parli, prete? Me ne devo andare? Che cazzo me ne devo andare? Dove sta zio Raffaele? Zia Renata è morta adesso. Io me ne devo andare? Juanito tiene gli elenchi? Quali cazzo di elenchi tiene? Dove sta Emma? Di che parli, Isidoro, eh, di che cazzo parli?

Sottovoce. Tutto sottovoce trattenuto. Me ne vergogno ancora. La tensione di don Isidoro non era certo inferiore alla mia. Lui aveva molte più persone care di quante ne avessi io di cui occuparsi. Non aveva Emma, di cui occuparsi. No: si occupava anche di Emma. Ma non aveva la “mia” Emma, di cui occuparsi.

-         Juanito dice che non ti riesce più a proteggere.

-         A proteggere? Che fa Juanito? Juanito protegge me?

Di nuovo – mai, nella mia vita, come in questi dieci, quindici giorni – serve tempo affinché la notizia, evidente da subito, mi arrivi dove può essere incamerata.

-         Giorgio!

Mi sta scuotendo le spalle con violenza.

-         Sì, sì, ho capito.

-         Giorgio, te ne devi andare da qui. Non posso startelo a ripetere. Ho altro da fare. Sbrigati ad andare dentro all’ambasciata. Tanti sono già lì. Sbrigati.

-         All’ambasciata ……… e Emma?

Sono ancora in stato confusionale.

-         Sto facendo del tutto, Giorgio, per averne notizie. Tu non puoi fare niente di buono, qui, solo mettere in pericolo la tua vita. Devi conservarla. Ci saranno momenti migliori in cui ci sarà bisogno di tutte le energie, non voglio che prendano anche te, Giorgio! Guardami, cazzo!

-         Sì, Isidoro, sto cercando di capirlo.

-         Ora devo andare. Promettimi che vai subito all’ambasciata.

-         Va bene.

-         Arrivederci, Giorgio. Buona fortuna.

Rimonta in bicicletta a parte, buffissimo con la tonaca rimboccata tra le gambotte e le mollette a tenere i pantaloni di fustagno.

-         Isidoroooo!

Gli corro appresso. Mi sono ricordato. Ho rimesso al suo posto qualcosa di fondamentale che la morte della zia Renata, le notizie su Juanito, avevano scacciato chissà dove. Si ferma.

-         Isidoro, ascolta, ti stavo dicendo di una suorina un po’ tonta, ritardata, insomma è come se fosse rimasta a otto dieci anni, senti, è importante, può essere molto importante, ci stavo parlando, ci ha interrotto una di quelle stronze ingioiellate che si salvano l’anima a succhiare la sofferenza altrui, ci stavo parlando e mi diceva che al convento da dove viene la madre superiora è stata svegliata di notte, che hanno portato lì dentro una donna incinta …… io adesso torno su a interrogarla …

-         No, Giorgio, vattene subito. Hai ragione, può essere importante. Ti prometto che in giornata ci torno io. Ci penso io. Te lo prometto. Ora vai. Vai! Vai!!

-         Come faccio a sapere che cosa ti avrà detto?

E’ già lontano. Spinge sui pedali. Non si gira. Parlerà con la suorina. Me lo diranno. Lui, don Isidoro, non lo vedrò mai più. Non ho conosciuto nessuno che cantasse più stonato.

 


Broc (nonno) (torna all'indice)

Anche noi sogniamo.

Sogno mio nonno. Ma non ne sono sicuro. Forse è il nonno del nonno di mio nonno.

Certe volte sogno i miei nipoti. Forse. Anche i nipoti dei nipoti dei nipoti. Secondo voi non è possibile. Per noi lo è. Mi è piaciuto come ho sognato uno dei miei nipoti che si addormentava in montagna, dopo un bel pranzetto a tocchetti di salcicce. Si è addormentato vicino a Giorgio da vecchio che gli carezzava la testa. Mi è proprio proprio piaciuto.

A me non è andata così bene, cioè Giorgio non lo vedevo più da tanto tempo quando sono passato quassù, comunque adesso corriamo insieme, con tutti gli altri, quanto ci pare, senza guinzaglio né museruole, e mangiamo e beviamo quando e quanto ci pare. Nessuno ci tira addosso l’acqua se ci ingroppiamo, e nessun padrone stupido ci grida dietro e ci confonde le idee e cerca di dividerci se litighiamo, che tanto poi non ci facciamo mai davvero male. Si sta bene, qui.

Il Principe non mi aveva mai dato un calcio. Mai.

La Principessa piange.

Sento gli odori della cucina. Nessun rumore, nessuna voce, invece.

Le parole del Principe e della Principessa sono abbaiate a bassa voce. Mi arrivano di rimbalzo dai muri.

Sono tornato ad accucciarmi vicino alla Principessa. Sta seduta sul divano. Ha il vestito della festa. Giorgio non c’è. Non c’è dal giorno che c’era tanta gente. In carrozza, a cavallo, a piedi. E’ passato pure un treno. Giorgio stava male. Gli usciva sangue. Stava steso per terra.

Il Principe cammina su e giù. Forse non mi ha visto. La principessa mi accarezza la testa. Piange. Le lecco la mano. Il sapore delle lacrime è buono.

Ogni tanto capisco che dicono “Giorgio”. A volte lo dice il Principe. A volte la Principessa.

Quando lo dice la Principessa, singhiozza, e il Principe diventa bianco bianco e stringe le mani e pure le mani diventano bianche bianche.

Quando lo dice il Principe fa grandi sospiri. Si gira verso la finestra. Guarda lontano. Resta fermo tanto tempo. Io mi alzo e mi strofino alle sue gambe. Mi accoccolo sopra alla scarpa. Ha un buon odore. Non mi importa se mi dà un altro calcio. Si gira verso la Principessa e sfila il piede, si accorge di me e mi strofina la scarpa sul dorso. Le altre volte la Principessa si arrabbiava. Adesso non se ne accorge.

Lui mette il braccio destro tirato con un dito steso e non è più bianco: è tutto rosso in faccia, adesso.

Lei si alza e cammina come lungo il braccio del Principe. Si ferma. Scoppia a piangere.

Il Principe le si avvicina. E’ rigido. La abbraccia. La Principessa piange sempre più forte. Io infilo il muso tra le loro gambe e giro la coda. Sono contento quando si abbracciano.

Uno dei miei nipoti mi dice, quassù, che Giorgio da vecchio era dritto, come lo ho conosciuto io. Di diverso aveva la barba bianca. Ha trattato bene anche mio nipote. Non andava più a cavallo. Solo a piedi.

E’ tornato al palazzo dopo tanto tempo. Dimagrito. Gli sono andato incontro appena ne ho sentito l’odore. Era mischiato con le puzze di quelle che gli uomini si mettono intorno quando stanno tanto tempo stesi dentro alle loro cucce, ma io l’ho riconosciuto subito.

Sto seduto sul tappeto vicino alla Principessa che legge. Non è più andata a caccia. Non esce più. Poggia il libro appena io alzo il muso di sbieco, come faccio quando sento arrivare Giorgio. Drizzo la testa e la Principessa mette la mano sul bracciolo, si appoggia per alzarsi. Io corro verso la porta del salone, da dove si va al corridoio che arriva alla sala d’ingresso. Mi fermo sulla porta, mi giro per vedere se arriva anche la Principessa, se correrà con me lungo il corridoio, come tante volte, e se potrò – mentre vado incontro a Giorgio che torna – girarle intorno e scivolare sui pezzi di albero lucidi. Si è riseduta. Sta riprendendo in mano il libro. Si è messa gli occhiali scuri.

Giorgio si inginocchia e mi arruffa le recchie. Cammina storto. Piegato da una parte. Meno male che poi mio nipote mi ha detto che è tornato dritto. Gli do certe belle leccate sulle guance e sulle mani. Mi fa nasonaso. Ah. Ah. lascio una bella pisciata a zampa all’aria sul muretto del giardino. Mi sento proprio bene. La Principessa non è uscita ancora.

Giorgio non entra. Gira dietro. Passa dalla parte della cantina. Riesce poco dopo con una borsa. Il Principe armeggia con i suoi cannocchiali; si capisce dagli sbrilluccichii che vengono dalla torre. Giorgio esce dal cancello. Non cammina tanto dritto. Gli corro accanto. Mi carezza la testa. Non lo ha fatto mai. Se ne va.

La sera il Principe e la Principessa siedono a tavola e io, come sempre, acchiappo i pezzetti buoni che mi tirano.

Il Principe dice “in sudamerica”.

La Principessa piange.

Il Principe si pulisce bene la bocca con il tovagliolo. Si alza. Si avvicina alla Principessa. Le prende la mano. Il Principe è forte. E’ anche buono. La Principessa gli sorride. Dice “con te sono serena, grazie.”

Io capisco poco. La Principessa è la mia padrona. I suoi piedi hanno un buon odore. Le lecco le scarpe. Non devo appoggiare le zampe addosso quando salto. Così ricado indietro. Il Principe va verso i cannocchiali. La Principessa mi abbraccia come quella volta che mi lasciò lontano, da quei contadini che non conoscevo. Quando mi venne a riprendere feci finta di non riconoscerla. Adesso mi abbraccia e mi fa appoggiare le zampe sul vestito. Io capisco proprio poco. Mi piace strofinarmi così e sbattere tanti colpi sulla sua gamba. Mi allontana. Ci capisco proprio poco.

Non l’ho più visto, Giorgio, da allora. La Principessa non ha più detto il suo nome. Il Principe non ha più detto il suo nome. Mi ha raccontato qualcosa mio nipote, qui. Lo ha conosciuto da vecchio.

Qui nessuno ci porta con il guinzaglio. Io ho voluto tenere il collare, ché ci sono affezionato, non lo sento più addosso e invece mi sa che sentirei la mancanza se me lo togliessero! Volevo tenere anche la cuccia, dove la sera la Principessa mi dava la buona notte, ma è rimasto solo un rettangolo di tubi tondi e un pezzo di stoffa con anelli tutti intorno. I lacci si sono tutti rotti. Ci abbiamo provato, ho chiesto aiuto, ma qui nessuno di noi è capace di fare nodi. Così mi fa un po’ tristezza vedere la stoffa che scolorisce e il tubo che arrugginisce. Pazienza. Alla Principessa piano piano sono aumentati i puntini rossi sul viso, anche se adesso si mette tante creme. Cucina lei per il Principe, adesso. Certe volte lava i calzini. Non lo aveva fatto mai, prima. Invita gente e apparecchia lei. Tutto diverso. Non sempre mi fa stare quando mangiano. Certi non mi piacciono e io li guardo male e borbotto. Quando è così mi esce tanta bava. Qui se ne sentono di tutti i colori. Un barboncino dice che lo portavano in un posto tutto lucido e bianco, dove lo mettevano in alto, e uno lo teneva e un altro gli tagliava il pelo, gli infilava un bastone piccolo bianco nelle orecchie e faceva su e giù, gli segava le unghie e poi, tutto così scoperto, lo mettevano in una specie di vasca, gli strofinavano addosso una di quelle cose che gli uomini usano per lavarsi, che hanno quella puzza terribile di fiori, così diventava tutto schiumoso e poi lo innaffiavano con una pompa e lui era terrorizzato tutte le volte e appena uscito pisciava sul pavimento ché lo sapeva che non si può dentro le case ma proprio non ce la faceva a tenerla. Poi lo rimettevano in alto e da un attrezzo che usciva dalla mano di uno di quelli veniva aria calda e questo era piacevole. Solo questo. Quando tornava a prenderlo, la padrona si arrabbiava sempre tanto perché appena usciti lui si voleva rotolare per terra a riprendere qualche odore normale. Mi sa che qui, comunque, raccontano un sacco di balle. Io ne ho viste tante, al castello, ma una così proprio non l’ho mai sentita.

Thò! Quelli sono due levrieri afgani ….. guarda quanto sono belli che corrono sulla riva del mare con il pelo all’aria! Prima di qui, abitavano su un terrazzo in una città.  Almeno così raccontano. Uscivano due volte al giorno al guinzaglio di un signore che suonava alla porta apposta per loro. Non era sempre lo stesso. Alcuni erano gentili e si fermavano ad aspettare che trovassero l’odore giusto per pisciare e cagare, altri li strattonavano e quando tornavano a casa non l’avevano finita tutta e così dovevano tenersela fino al giorno dopo e la notte allora si lamentavano e i padroni si scocciavano. Adesso qui è proprio un’altra cosa, eh! Guardateli: sembrano fatti di vento.

Ogni tanto qui arriva qualcuno che ha conosciuto la Principessa, o il Principe, o Giorgio, e mi racconta qualcosa. Io, però, non credo a tutto quello che mi dicono.

La Principessa ha fatto due cuccioli insieme. La Principessa è contenta.  Il Principe sempre di più tra i suoi cannocchiali. La Principessa va spesso in città con l’autista. Uno dei miei nipoti, a loro credo di più, dice che il Principe fa grandi urli – e comunque mi sembra strano: parlava sempre a voce bassa... – quando i suoi cuccioli gli spostano i cannocchiali.

Non abbiamo più corso tutti insieme appresso alla volpe, con i padroni sui cavalli che ci venivano dietro. Mi divertivo tanto.

Così mi annoio un po’. E’ vero che sono l’unico a poter entrare nel palazzo, ma la Principessa ci sta poco, e quando c’è non gioca quasi più con me. Me ne sto steso sul tappeto. Qualche volta pure sul divano, tanto faccio in tempo a scendere se arriva qualcuno. Il Principe tra i cannocchiali. I loro cuccioli con una che parla strano e non vuole che mi si avvicinino.

Qui ne raccontano tante.

Dicono di un posto dove tenevano tanti orsi – sì, quelli grossi che è meglio starci alla larga – tutti in fila dentro gabbie strette dove dovevano stare sempre in piedi, ché loro invece andrebbero a quattro zampe. Ognuno di loro aveva un tubicino che usciva dalla pancia. Tutti i giorni passava qualche padrone, apriva una specie di rubinetto su quel tubicino e usciva un liquido verde che andava a finire in una ciotola. Poi li mettevano in bidoni come quelli del latte delle vacche. Gli uomini sanno un sacco di cose in più. Quello che l’ha raccontata -  ma io ci credo fino a un certo punto -  dice che gli uomini avevano la faccia gialla e dicevano che la bile serviva a guarire tante malattie. Una volta un orso si è aperto la pancia con quelle unghione che hanno, si è tirato fuori gli intestini e se li è mangiati. Per questo, perché non si facessero così male, gli uomini hanno fatto gabbie più strette.

Ne raccontano tante, qui. A me mi hanno sempre trattato bene. Mi dispiace solo che la Principessa non ci sia potuta stare quando mi hanno portato a fare il buco sul lettino. Dopo sono salito qui. A mio nipote è andata meglio, ché Giorgio l’ha accarezzato mentre si addormentava. Ma non mi lamento. Sono contento così. Ho fatto una bella vita, al servizio dei miei padroni.


Monsignore (torna all'indice)

Non c’è un filo di polvere, sui vasi cinesi disposti lungo i corridoi. Né sul mattonato. Tutti parlano sottovoce. Sono molto stanco. Non so più se voglio davvero sapere, conoscere la verità, o se non sto soltanto proseguendo un rito. Sono stanco di tanto cercare, di tante risposte di buona volontà, di nessuna risposta. Degli sguardi compassionevoli. Del giudizio non detto che intravedo dietro un’esitazione, uno sguardo distolto, una stretta di mano troppo calorosa. Sono davvero stanco.

Don Isidoro dev’essere in qualche modo una potenza, per essere riuscito e farmi avere un colloquio qui.

Ho appuntamento con un Monsignore. All’ingresso del cancello di sant’Anna. Le guardie svizzere qui sono in divisa blu. Chiedo al Monsignore come mai non abbiano quelle divise colorate arancio e blu a strisce con i pantaloni sbuffati.

Mi risponde, cortese, che anche le guardie svizzere hanno divise per i giorni di festa e divise per i giorni normali; per la rappresentanza e la quotidianità.

Passiamo all’interno dei palazzi vaticani in un giro molto tortuoso, almeno tale a me pare, durante il quale tutti coloro che incontriamo – prelati, guardie, suorine, impiegati – ci ossequiano, chi con un sorriso, chi con un cenno del capo, chi con una parola deferente. A tutti il Monsignore risponde cortese e senza deflettere di un passo dal suo incedere veloce e deciso.

A mano a mano che avanziamo il Monsignore mi mostra, dalle ampie finestre che incontriamo sulla via, il cortile del Belvedere del Bramante, ora adibito – ahinoi, la modernità ha i suoi prezzi – a un tristo parcheggio che deturpa la meravigliosa fontana al centro, il cortile di san Damaso, il laboratorio per il restauro degli affreschi, la tipografia poliglotta ...... finché entriamo nei Palazzi Apostolici.

Mi sta accompagnando dal Cardinale. Mi hanno spiegato che è una specie di Ministro degli esteri, qui.

E’ il sottovoce la cifra sonora dominante in questi corridoi dalle pareti alte. Corrono lungo le intere facciate dei palazzi. Tutti comunicano a rapidi fruscii.

Mi immagino le suorine lucidare all’alba i pavimenti di marmo. Mi immagino tutine rosse di diavoletti dispettosi con i pattini che si divertono a punzecchiarle con sottili forconcini infernali, lasciando olezzi di zolfo. Mi immagino le suorine – con i sensi di colpa come se andassero ad un appuntamento quotidiano col peccato - affannate ad arieggiare, e felici nello scivolare sui panni felpati a coprire le strisce birbanti dei pattini.

Siamo al terzo piano. Il soffitto a volte è tutto affrescato da Raffaello. I visitatori dei musei vaticani possono godere delle logge soltanto del secondo piano. Qui non sono ammessi. Siamo adiacenti all’abitazione del Papa, mi spiega il Monsignore.

Le parole che dice sono tese a sottolineare – la voce si abbassa – soprattutto la deferenza dovuta al luogo. Ciò che mi arriva è di non sottovalutare il privilegio, anche estetico, del trovarmi lì. Raccolgo.

Il Monsignore mi lascia per qualche minuto. Mi ritrova a testa in su.

-         Ancora pochi minuti e il Cardinale la riceverà.

-         Grazie.

-         De bona et de mala senectute. E’ il titolo di quegli affreschi che sta ammirando. Sempre Raffaello.

Un vecchio appoggiato ad un bastone. Un giaguaro elegante. .......

-         In effetti, sembrerebbe che l’esempio negativo non appaia così da aborrire come il titolo vorrebbe farci credere....

Aggiunge arguto il Monsignore.

-         Nel periodo di massimo splendore della nostra arte i committenti erano Papi, Principi, Cardinali, Nobili – anzi, talvolta queste funzioni si potevano confondere, allora – e gli artisti, sotto la devozione, trovavano – ciascuno a suo modo – la maniera di esprimere anche ciò che non era propriamente conforme ai dettami della catechesi e del magistero ecclesiastico....... lo facevano così, o rappresentando le tentazioni da cui fuggire, o i vizi da aborrire, o le punizioni ......

-         Sì, mi fa pensare a Bosch, con i suoi mostri e le torture più indicibili rappresentate come punizioni infernali e tuttavia con la compiacenza di esprimere un profondo e ironico sadismo......

-         ..... Ironico lei dice .... forse ..... forse sì ....sta pensando al Giardino delle delizie?

-         Anche.

-         Bene. Ora possiamo andare. Il Cardinale la aspetta.

Mi accoglie sulla porta. Non ha l’aria sfarzosa che uno come me si potrebbe aspettare da un cardinale. Non è pieno di anelli e pesanti croci d’oro. Una escrescenza sulla guancia – più di un grosso neo – gli dà un aspetto tra il buffo e il sornione.

-         Avanti, avanti, venga pure avanti ....

La stretta di mano è rapida e forte, di chi è uso all’essenziale.

-         “Avanti avanti, cchè ce sò li greci?”. Lo sente come suona? “Nel mezzo del cammin di nostra vita”………. “Avanti avanti, cchè ce sò li greci?”…..

Il mio sguardo interrogativo, mentre mi avvicino alla poltrona che Monsignore mi ha indicato, non lo sorprende.

-         E’ un perfetto endecasillabo. Mi è rimasto impresso. Un bigliettaio. Sa, quelli dei filobus. Quelli che, oltre a staccare i biglietti, scendevano, alle curve troppo strette, a rimettere al loro posto le aste che davano corrente sui fili. Facevano tante scintille. Tiravano quelle aste come redini. C’era la guerra. Agli italiani era stato promesso che sarebbero state rapidamente spezzate le reni – così si diceva – ai greci. I filobus erano affollati; la gente si accalcava sulla piattaforma posteriore, dalla quale c’era una specie di corridoio stretto, segnato da tubi di alluminio, per passare uno alla volta davanti al bigliettaio. E così dalla voce del popolo – i greci si erano rivelati poco disposti a farsi spezzare le reni – nasce la poesia …….”Avanti avanti, cchè ce sò li greci?”. Faceva il suo lavoro, declamava, senza saperlo, un endecasillabo, e si esercitava elegantemente nell’arte romana dello sfottò.

-         Eminenza, la ringrazio di avermi ricevuto…..

Mi meraviglio di ascoltare un tono sincero. Chi me l’avesse detto, che sarei venuto a chiedere aiuto ai preti, in Vaticano!

-         Conosco don Isidoro da quando era in seminario. E’ un bravo prete. Le comunicazioni oggi non sono agevoli. Son tempi difficili. Bisogna fare molta attenzione. Lei è un suo parrocchiano?

-         Un amico. Andavamo insieme in montagna. Un buon amico.

-         Un amico, dice …. un amico è più di un parrocchiano, anche per nostro Signore……

Siamo nel suo studio. Sono seduto, rigido, di fronte al Cardinale, su una sedia di broccato con braccioli di legno ricurvi. Scomoda. Il Monsignore è seduto sul lato corto della scrivania, in posizione defilata e attenta. Il Cardinale, appoggiato verso di me sulla scrivania, si tiene la mandibola con pollice e indice larghi sugli zigomi.

Mi guarda come avrebbe potuto guardarmi mio padre.

-         E’ morta. Preferisco dirglielo così, non con i giri di parole che lei si potrebbe aspettare da un prete. E’ morta. Sua moglie è morta.

Si alza. Viene a sedersi sulla sedia gemella dal mio lato della scrivania. Se non fosse un cardinale direi che i suoi occhi hanno più rabbia dolorosa che compassione.

-         Qualche giorno dopo essere stata arrestata ha avuto un parto prematuro, preceduto da una grave emorragia. Una disgrazia, dicono ….. quei pezzenti non hanno saputo che cosa fare per qualche giorno. Hanno avuto paura di portarla in ospedale. L’avevano arrestata per errore, lo sapeva?

-         Sì, lo sapevo.

I braccioli scricchiolano. Cerco un appoggio indietro per la testa e anche questi ghirigori intarsiati mi paiono accoglienti.

-         L’hanno portata in un convento di suore, sa, la Chiesa mantiene buone relazioni a tutti i livelli, c’è sempre la possibilità di fare del bene ….

Se non fosse un Cardinale, direi che il ghigno che gli solleva il bozzo in faccia sia amaro, più che compassionevole.

-         La Madre Superiora ha subito chiamato un medico ….. aveva perso tanto sangue.

-         E nostro figlio?

Mantengo la lucidità. La mantengo. Emma è morta. Emma è morta. Emma non c’è più. Io mantengo la lucidità.

-         Di lui sappiamo solo che, pur essendo nato prematuro, e in quelle penose condizioni, era un bel maschietto. Stava bene. Non sappiamo altro.

Se non fosse un Cardinale, un uomo di Dio, direi che mente spudoratamente, e che i suoi occhi non cercano nemmeno di nasconderlo.

Anche Monsignore si è avvicinato.

-         Che cosa devo fare? che posso fare?

Sono smarrito. Sì, più smarrito che sconvolto. Queste mura, questo odore di sacrestia, queste veste imponenti, questi soffitti alti, questi mobili pesanti, mi trasmettono il senso e il significato della potenza e dell’accoglienza, come il retrobottega di una chiesa gotica. Dentro di me la voglia di abbandonarmi alla misericordia sovrasta il dolore e la rabbia. E la rabbia per questa voglia di abbandono è più forte del dolore per la morte di Emma. E l’ignoto abissale di un figlio di tre anni non sa dove farsi strada. Sono confuso. Sono stanco. E’ troppo. E’ troppo. Volgo lo sguardo al finestrone che dà sui giardini. I pini sono velati. Le mie mani non stringono più i braccioli della poltrona, le braccia sono allentate all’esterno, le dita ciondolano abbandonate in basso. Monsignore mi porge un bicchiere d’acqua.

-         In questi casi, a quanto ci è dato di sapere, succede che il bambino viene dato, in gran segreto, a una coppia sterile che lo registra come se fosse nato da loro. Di solito il marito è un militare, un poliziotto, un giudice, o un giornalista amico della polizia e dei militari. Qualcuno gestisce una specie di lista di attesa.

Guardo il Monsignore. Sta seduto in pizzo, volto con sollecitudine verso di me. Lo guardo inebetito. Guardo il Cardinale.

-         Che cosa devo fare? che posso fare?

-         E’ in questi momenti, figliolo, in cui non riusciamo a riconoscere il disegno imperscrutabile del Signore, tanto gli eventi ci appaiono ingiusti, è in questi momenti che solo la fede ci può soccorrere.

Lo guardo. Che cosa dici, prete? Che cosa dici?

-         …….. E capisco come, per chi non ha il dono della fede, sia inaccettabile tutto ciò. Lo capisco, figliolo. Lo capisco.

Il suo viso si è fatto duro. Impenetrabile. Tuttavia, lo sento vicino, in un modo che non so esprimere.

-         E Emma? Dov’è Emma?

Sono freddo, ora, nonostante due grandi lacrime parallele mi stiano scendendo. Sono due soltanto, così gonfie e così piene che ........ rigano? solcano? scavano? quale parola non abusata può rendere due lacrime di dolore che tonfano sul marmo?

Monsignore distoglie lo sguardo. Il Cardinale sapeva che avrei fatto questa domanda. Mi guarda fisso. Ne ha viste tante. Ne ha viste di peggio. Il suo dio non sempre lo soccorre.

-         Non lo sappiamo, Giorgio.

-         Emma è morta, mi ha detto. Dov’è sepolta?

-         Non lo sappiamo, Giorgio.

Mi guardo intorno. Mi sta salendo una collera distruttiva.

-         Come non lo sapete? Sapete che è morta, sapete che nostro figlio è vivo, e non sapete dove è sepolta?

Sono aggressivo. Sto perdendo ogni senso della gratitudine e anche della mera cortesia.

-         Tanti sono scomparsi, laggiù.  Scomparsi, Giorgio. Non se ne sa più niente. Scomparsi.

Mi fissa addolorato. Il Monsignore si sente in dovere di andare in aiuto al cardinale.

-         Anche se è doloroso da dirsi, Giorgio, tanti, laggiù, considererebbero un privilegio avere la certezza della morte di un loro caro, e sapere il modo in cui è morto ......

Non lo sento proprio. Il Cardinale è rimasto fisso su di me. E’ addolorato.

Li ringrazio, che altro potrei fare? Chiedo, come per cortesia, notizie di don Isidoro. Mi rispondono vagamente. Percepisco che sono preoccupati, e che la natura della loro preoccupazione è in qualche modo molteplice e contraddittoria. Vogliono bene a don Isidoro; tuttavia, temono che la sua generosità e il suo amore per l’umanità lo inducano ad azioni che possano avere ripercussioni difficili da gestire. La Chiesa è grande. La Chiesa parla con l’ultimo abitante delle favelas e con i Capi di Stato e, per esercitare il suo Magistero, non ha bisogno di sapere come gli uni e gli altri sono arrivati dove stanno. Li trova lì e ce li lascia. Non è suo compito “spostarli”.

Nel salutarmi, il Cardinale fa un cenno al Monsignore, e questi scrive qualcosa su un cartoncino bianco, con lo stemma cardinalizio, lo ripone in una busta con lo stesso stemma nel lembo interno di chiusura, e me lo porge.

-         Ci sono nome e telefono di un dirigente del Ministero degli esteri. E’ una brava persona. Se c’è qualche notizia nuova lui gliela darà. Siamo nelle mani del Signore.

E’ il commiato definitivo.

Figlio mio. Figlio mio.

Sono nella piazza circondata dal colonnato del Bernini, con l’opera di Michelangelo imponente alle spalle, e castel Sant’Angelo di fronte, in fondo. Sono in un luogo immenso. Eppure mi sento più grande di tutto ciò, al pensiero di mio figlio. E mi sento uno scarafaggio che sta per essere schiacciato dal primo carretto che passerà su questa strada, al pensiero di mio figlio. Figlio mio, come potrai chiamare “papà” l’amico di chi ha assassinato tua madre? Dovrò desiderare, per il tuo bene, che, quale che sia la casa dove sei andato a finire, ti abbiano accolto bene, che ti allevino bene, educhino bene, che ti amino molto. Dovrò sforzarmi di credere che non abbiano coscienza della tua storia, e di come essi se ne impossessarono e la falsarono. Hai tre anni. Se anche ti cercassi, se anche ti trovassi – e potrei, potrei, certo che potrei, i burocrati della morte sono stupidi e ordinati, avranno i loro archivi precisi, basterebbe avere pazienza e tenacia…… - se anche ti trovassi, se anche potessi strapparti agli impostori che per te sono oggi i tuoi amati genitori, ti farei del bene? La tua personalità in formazione non ne sarebbe devastata? Che cosa devo fare? Che cosa posso fare? Chi può darmi una risposta? Se c’è un cazzo di dio percheccazzo non interviene? Maledetti. Pagherete. Qualcuno pagherà. E’ un credito inestinguibile, questo. Qualcuno pagherà. Chissà se hai i miei occhi castani o gli occhi verdegrigio di Emma, con quel bagliore tutto speciale e tenero e birichino? Qualcuno pagherà, figlio mio. Ti voglio bene, figlio mio. Ti voglio bene.

 


Nadia (torna all'indice)

Immaginate quindici donne da una parte e all’incirca altrettanti uomini dall’altra.

Soffitto alto dove fanno i nidi le rondini, metà parete a vetri, fuori bosco e prati.

E’ estate. Fa caldo. Primo pomeriggio. Cicale a tutto spiano.

Gli uomini sono in mutande. Gli slip prevalgono sui boxer. I colori sono i più diversi, con prevalenza di nero e fantasie. Fanno cerchio come una squadra di baseball. Quasi tutti a piedi nudi. Qualcuno con i calzini corti.

Le donne in mutande e reggiseno. Domina il bianco ma non mancano mises colorate. Si incitano a vicenda come potrebbero le amazzoni prima della battaglia decisiva. Tutte sono a piedi nudi.

Tutti, tutte, sono lì dalla mattina presto. Anzi, per la verità sono lì da una settimana; è che oggi è un po’ la giornata clou dei dieci giorni di attività intensive previste dal programma di “Benessere Psicofisico Individuale E Delle Relazioni Umane” (tutto rigorosamente maiuscolo, sì).

Tra i due gruppi, distanti tra di loro cinque sei metri, come un arbitro di chissà quale partita, un uomo anziano, alto e vigoroso, capelli bianchi morbidi. Si avvicina agli uomini. Si sposta verso le donne. Osserva, ascolta, dà qualche brevissima indicazione.

Le donne si portano tutte insieme il dito indice sulla fronte, fanno un grande respiro, ed emettono una lunga, acutissima “iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii.........”.

Pausa.

Si stringono le mani in cerchio.

Ora portano, ciascuna, il dito medio al centro della gola. Grande respiro: “eeeeeeeeeeeeeeeeeeee..........”.

Qualcuna scuote i capelli qua e là.

Cerchio. E’ più raccolto.

La punta di tutte le dita della mano destra in mezzo al petto. Più respiri ripetuti. Ad un segnale, respiro trattenuto e:  “aaaaaaaaaaaaaaaaa..........”.

I corpi ora si scaricano: una corsetta leggera sul posto e le braccia ciondolano come di marionette con qualche filo segato.

Cerchio. Mani nelle mani.

Palme a coprire l’ombelico. Lunga, lunga serie di respiri: “ooooooooooooooooo............”.

Il cerchio, prima dell’ultima vocale, è a gambe larghe. Saltelli sul posto. Respiro. Respiro profondo. Respiro. Mano destra a conchiglia sul sesso: “uuuuuuuuuuuuuuuuuu...........”.

Mani nelle mani. Braccia alzate. Respiro dentro finché il petto non si può gonfiare oltre. Ognuna modula, a voce dispiegata, su tutte le tonalità e le scale, una o più vocali in sequenza, che vanno a comporre un’inverosimile armonia - sembra di vedere le note colorate sul pentagramma dei raggi di sole che scivolano da dietro all’incannucciata -  che a sua volta sbocca nel grido prolungato delle donne algerine.

Dall’altra parte, gli uomini sono raccolti, con le braccia l’uno sulle spalle dell’altro. Avvicinano le teste. Capelli corti, lunghi capelli, codini, canutezze a chierica, crani rasati a lucido, ricci veri e ricci arricciati, barbe incolte, barbette scolpite, barbe ben fatte, lozioni, ritorni di aglio e pomodorini, residui andati a male tra le gengive, dopobarba, rutti di cipolla, aliti di caffè, balsami, ascelle .........

Si staccano. Si dispongono in due tre file. L’anziano dai capelli bianchi e morbidi – e, ora si vede meglio, dalle gambe muscolose e dai tendini ben tesi – mostra loro il movimento: pianta dei piedi tutta a terra, no, attento, non sollevare! gambe allargate, ginocchia flesse, ok, palme delle mani sul davanti delle cosce, ok, piede destro alzato, ora giù, piede sinistro alzato, ok, bene, giù, ciac della mano destra sulla coscia destra, ciac sulla coscia sinistra, ok, ok, ciac sulle due cosce insieme, collo a destra, collo a sinistra, ogni movimento accompagnato da “uh!”, “uh!”, “uh!”, “uh!”, sempre più forte, sempre più forte..........

I due gruppi, le donne e gli uomini, sono pronti. L’occidente sta coniugando le sapienze degli antipodi.

Il gruppo delle donne si raccoglie in cerchio, continuando a modulare vocali con la mano che leva e mette la sordina alla bocca.

L’anziano dai capelli bianchi che conduce chiede un volontario, che si mette per primo, e il gruppo degli uomini si dispone a cuneo, il volontario avanti, seguono due coppie di due, poi tre, quattro..... Saltellano tutti insieme e si danno forza con grandi pacche sulla schiena e grandi “uh!”, “uh!”, “uh!”, “uh!”.

Saltellando, il volontario – mutande nere a slip e calzini bianchi di cotone con strisce bianche e rosse – si avvicina al gruppo delle donne. I suoi lo seguono, tutti saltellando a tempo: “uh!”, “uh!”, “uh!”, “uh!”. Il volontario sta per rompere il cerchio delle donne, quando si guarda indietro smarrito: preso dall’entusiasmo, si è distaccato dal suo cuneo di qualche passo.  Con il braccio alzato fa un cenno da condottiero, come a serrare le fila. Su indicazione del trainer, il gruppo degli uomini resta a qualche passo di distanza ma lo incita con più forza: “uh!”, “uh!”, “uh!”, “uh!”. I baffetti aguzzi del volontario si tuffano infine nel cerchio delle donne, che hanno aumentato l’intensità delle loro grida. Ribaldo e impaurito, sta al centro, ora. Il cerchio gli si richiude intorno. Lui urla più forte i suoi “uh! uh!”, salta più in alto, e continua a chiamare a grandi bracciate i suoi compagni. Questi finalmente lo seguono e, penetrando uno alla volta, riformano il cuneo compatto all’interno del semi-cerchio delle donne che si è allargato con le braccia distese.

Finalmente, gli uomini si ritirano nella loro postazione originaria, e le donne si dispongono loro ad avere l’iniziativa. Gli uomini di nuovo a cuneo, le donne scarmigliate, sinuose, si avvicinano tutte insieme e girano, prima alla larga, come gli indiani intorno ai carri dei coloni, poi accorciando le distanze, avvolgendo il gruppo dei maschi, ancheggiando e strofinandosi tutt’intorno. Qualche viso, sia da una parte che dall’altra e, da entrambe le parti, per lo più tradito dal corpo, mantiene l’espressione seria o altera o distaccata o infastidita o da checifaccioioqui. L’insieme ululante, ormai mischiato nei sudori gli aliti le voci, è diventato un corpo unico di bruchi che si rotolano come presi nella morsa del becco di un uccellino. Quando siamo (eh sì, ci sono anch’io) spossati e roridi, l’anziano ed esperto trainer dai fluenti capelli bianchi dà il segnale di chiusura. Chi si aggrappa alla bottiglia di acqua minerale che ha prudentemente appoggiato alla parete prima di cominciare, chi si distende sui tappetini di pezza sudazzati, chi scoppia in un pianto non si sa se consolatorio o disperato o liberatorio, chi prende fiato beato spaparanzato nelle poche sedie di plastica ai lati, chi ancora inebetito si guarda intorno e si chiede come lo potrà raccontare agli amici a casa.

Io sono tra questi ultimi.

Che ci faccio io, qui?

Non lo sapevo, prima, ma sono venuto a conoscere Nadia.

La sera, sdocciati ricomposti profumati, nel dopocena, sulla fresca terrazza a vetrate che danno sul verde intorno, si chiacchiera si canta intorno a una chitarra, ci si rilassa con una meritata sigaretta.

In un angolo, la biondina che nel pomeriggio quasi scompariva, tant’è minuta, tra le tettone delle sue compagne, gira intorno alla cavallona con i capelli neri, che se ne sta impalata a piedi giunti, nel suo completo celeste.

Ai lati di Lorenza stanno due bacinelle di plastica bianca ripiene di acqua e sale. E’ stato proprio vedere Nadia che versava il sale ad incuriosirmi.

Nadia, in punta di piedi, avvicina entrambe le mani alla testa di Lorenza. Le mani di Nadia, piccolissime, sono affiancate pollice pollice, e fanno un movimento, a circa venti centimetri dalla testa di Lorenza, come se portassero via qualcosa intorno a Lorenza e lo gettassero nelle bacinelle a terra. Nadia è estremamente concentrata. Lorenza sta lì tutta compresa. Nadia le gira intorno e ripete il movimento più volte, dall’alto verso il basso, e poi viceversa, fino a completare il contorno di un ideale arco che avvolgesse Lorenza e che, partendo da una bacinella, finisse nell’altra.

Nadia fa cenno a Lorenza di aver finito. Lorenza la ringrazia e la abbraccia con calore. E’ visibilmente commossa e grata.

Ho continuato ad osservare con grande curiosità.

-         Che cosa hai fatto?

Nadia si gira. Mi fa un sorriso stanco.

-         Ho pulito l’aura.

-         Laura? Ma lei non è Lorenza? E che vuol dire che l’hai pulita?

Credetemi: sono sorpreso, sono spiazzato. Non ho inteso fare nessuna battuta facile. Non escludo che l’avrei potuta fare, se avessi mai sentito nominare prima di allora l’aura. Laura non c’è, taratatà, è andata via, eccetera. Non lo escludo per niente. Ma io proprio non sapevo che intorno a ciascuno di noi esistesse questa specie di luminescenza che, peraltro, solo taluni vedrebbero e solo talora. Per la verità, io non l’ho mai vista e sono del tutto scettico sul fatto che esista davvero. Tuttavia, per Nadia era una cosa seria. Lo divenne anche per me. Perché Nadia è una persona estremamente seria. E buona. Quindi non escludo, in linea di principio, che possa essere in grado di sperimentare ciò che non tutti possono.

Non vi sorprenderete, comunque, se, in quel momento, Nadia semplicemente mi offre le spalle e, senza commento alcuno, si allontana.

Lo sguardo di Lorenza è commiserevole.

Mi sento abbastanza stupido. Certo è che non posso fare a meno, con tutta la disponibilità e la buona volontà, di chiedermi – e certo a questo punto tengo per me le domande – che fine farà il contenuto delle bacinelle, se ci sarà da qualche parte un deposito per le scorie delle aure, se ci saranno regole da seguire – ed emesse da chi – per lo scarico, il deposito, lo stoccaggio. Sono fatto così.

La incontro più tardi che passeggia, da sola, ai margini del parco. L’orizzonte è blu blu come è blu la notte. Una falce di luna. Sullo sfondo, nuvolone gonfie di lampi che le percorrono e di bagliori da esplosione nucleare.

-         Non si potrebbe, più romantico di così, eh?

Si gira.

-         Scusa per prima, ti sarai resa conto che io sono proprio un vero caprone per queste cose.......

-         Non mi stavi sfottendo?

Si rabbuia a quello che deve apparirle come un ghigno.

-         Sinceramente: lo avrei anche potuto fare, di sfotterti, ma quella che hai visto all’opera era proprio ignoranza.

E’ incerta.

-         Nel frattempo, ho chiesto in giro e adesso ho qualche minuscola cognizione in più .... so almeno come si scrive .... l’aura ....

-         E allora?

Ora è sfidante.

-         Allora io tendo allo scettico spinto, per queste cose, e allo stesso tempo sono incuriosito e attratto quando persone come te sembrano praticarle così seriamente ....... ehi ti avverto: può venirmi da ridere se ci ripenso ...... può essere una forma di difesa dall’ignoto? o forse sono solo un po’ stronzetto .... può essere ....

-         Dai, lasciamo perdere l’aura e facciamoci due passi, ti va?

-         Volentieri, il temporale è lontano. Di qua o di là?

Indico i due lati della sterrata che va diritta, identica, da una parte e dall’altra a perdita d’occhio.

-         Di qua.

Decisa. A destra.

Ora, sinceramente, quante donne -  e quanti uomini! – avrebbero risposto “decidi tu” oppure “per me è lo stesso”? Nadia dice “di qua”. Senza un attimo di riflessione. Senza bisogno di soppesare le differenze. Nadia è così.

Ci raccontiamo un po’, lungo la strada.

Ci continuiamo a raccontare, nei due tre giorni, anzi nelle due tre sere, che restano alla fine del seminario.

Viene naturale, spontaneo. Sono i momenti più belli, quando ci si racconta e ci si sente riconosciuti. Il difficile, di solito, arriva al momento di mettere in mostra, o in condivisione, pezzi di te che non piacciono, o che non piacciono come il resto. La tentazione è di metterli da parte, nasconderli. L’illusione è di rinviare il confronto tra le differenze. D’altra parte, il motore è dato dalle differenze, non dalle somiglianze.

La prima volta che, timidamente, dallo stare sottobraccio, le prendo la mano, e camminiamo per qualche minuto in silenzio, tra i latrati dei cani e il cuculo, si eccita tantissimo.

Me lo disse mesi dopo, che era stato quello il segnale che il suo corpo le aveva mandato, a farla decidere che “ci poteva essere qualcosa”.

Passiamo le ore, a fare l’amore. E’ uno scricciolo pieno di passione.

Ci spogliamo a vicenda, un pezzo per volta. Con movimenti lenti intervallati da abbracci improvvisi e baci violenti. Stiamo per qualche minuto in piedi, di fronte, tenendoci le mani e senza guardarci in faccia. Di solito sono io che le sollevo il viso, proponendole l’indice sulla punta del mento. Ha in viso un’espressione unica. Mi abbasso – ci sono buoni trenta centimetri tra di noi -  per un bacino sulla fronte. Le scosto la frangetta. Si stringe a me. Riesce a malapena a completare la mia circonferenza. Le sbottono la camicetta. Un bottone alla volta, con la sola mano destra. Lo fa anche lei, e ad ogni bottone percorre i miei pelazzi arruffati sul petto.

Ci mettiamo tutto il tempo che serve, a restare nudi. Tutto il tempo che serve ad assaggiare ogni pezzo di corpo che si scopre. Ad assaggiarne anche solo la presenza all’aria, liberato dalla scarpa, o dall’orecchino. Tutto il tempo che serve. Serve molto tempo, per incontrarsi. Sì, una volta ogni tanto può essere bello anche strapparsi i vestiti di dosso e rotolarsi alla senza ritegno. Ci piace di più, molto di più, assaggiarci lentamente come una buona golosa pietanza.

Andiamo nel letto mano nella mano. O un po’  abbracciati. O stretti stretti.

Stesi, gli occhi sono vogliosi. La passione – o è l’amore? o che cos’è? – rende i corpi splendenti l’uno all’altro. Oh, non che non riconosciamo i difetti, le ineleganze, le brutture anche ...... è che l’insieme è: bello. E’ bella la luce che emana da dentro e fa trasparire la pelle. E’ bello il sudore che si mischia. Bella è la tensione che attrae e il posticipare, il rinviare a quando la tensione sarà salita ancora. Sale sempre, anche quando pare al culmine. Continua a salire.

Ci distacchiamo con il fiatone, dopo prolungate carezze. Passo più volte, con le mie manone, su quel corpo che sembra pronto a spezzarsi, tanto è minuto, ma che è flessibile e snodabile come una canna un serpente ...... Faccio il pane sulle cosce sode. Le mani di Nadia sono speciali. Trovano il punto del mio corpo che in quel momento le chiama come un rabdomante troverebbe l’acqua. Segue l’energia, dice. Tendo a crederle. Sta di fatto che mi fa sussultare solo sfiorandomi l’interno del ginocchio, o seguendo la linea delle scapole. Riesce ad eccitare il corpo nel suo insieme come se diventasse un grande cazzo turgido e reattivo. Non ho la sua intuizione. Posso passare da un lungo massaggio a mani piene su tutta la schiena a girarla con decisione e, guardandola con dolcezza negli occhi, stringerle il capezzolo tra il pollice e l’indice fino a vederli riempirsi di lacrime. Continua a guardarmi con tenerezza. Passare per il dolore è come aumentare la soglia della sensibilità. Non ci facciamo mai “male”. Quando mi addenta l’orecchio e so che sarebbe in grado di staccarmelo, non me ne preoccupo. E non perché “so” che non lo farà. Il piacere sta nel fatto di sapere che “può” farlo. Che io le consento di farlo. E che non ce n’è bisogno. Che sarà maggiore il piacere di ripassare poco dopo, con la punta della lingua, su quella parte, e sentirla fremere come non mai. Alla fine: un cazzo è un cazzo e una fica è una fica. Poche cose sono facili come metterli uno dentro l’altra. E’ quando “questo” corpo e “codesto” corpo si incontrano, che si produce un’alchimia unica. Se si produce, ne vale la pena. Se si produce, lo sai prima, lo sai molto prima di metterlo dentro. O di aprirla.

Così è con Nadia. Nadia non prova quasi mai orgasmi. Si spossa in ore di sussulti di piacere, mentre la sbatto con forza, o lentamente, o dolcemente, o mentre mi prende da sopra e la sua fica mi succhia da tutte le posizioni. Rovescia la testa all’indietro, apre la bocca, allarga le braccia e il viso diventa una lunga maschera di sofferenza mentre gode allo spasimo. Non raggiunge l’orgasmo. Forse è accaduto una, due volte.

Abbiamo trovato un equilibrio. Dopo ore di eccitazione, rilassamento, riprese, scuotimenti, sono sazio anch’io. Non sento il bisogno di venire. Qualche volta Nadia mi masturba con sapienza e amore. Qualche volta lo faccio da solo, magari il giorno dopo.  E’ una tale concentrazione di umori salive baci strette incastri che “oltre”, certe volte, potrebbe essere troppo. Far l’amore con Nadia è un’esperienza assolutamente compiuta. Sana. Appagante. Ci squartiamo e ricuciamo senza lasciare segni sulla pelle.

Siamo stati insieme molti anni.

E’ una giornata cupa. Le nuvole basse. Hanno vietato la manifestazione. La città è presidiata. Non lo posso accettare. Anche qui. Hanno pure chiuso alcune radio. Non c’è bisogno di dirselo. Siamo arrivati alla spicciolata. Incontro il responsabile della pagina economica che, come se niente fosse, attraversa in bicicletta la piazza totalmente vuota, irrealmente priva di traffico automobilistico. Si sentono tonfi lontani di lacrimogeni e colpi isolati.

Mi guarda, mi sorride tra l’amaro e il divertito, e mi fa:

-         Li abbiamo circondati, eh!

Siamo lui e noi. Qualche ombra lungo i muri delle strade laterali.

Pian piano diventiamo di più. Sparsi. Sparsi per principio. Per non dare occasione di intervento. E tuttavia presenti, per testimoniare la volontà e il diritto di esserci.

E’ morto un giovane, in un’altra città, ieri, colpito al petto da un candelotto lacrimogeno.

Stasera - lo leggeremo domani – morirà una giovane, colpita al petto da una pallottola di pistola. Non si saprà mai chi l’avrà sparato, quel colpo. Si parlerà a lungo, invece, per discriminare la gravità di quella morte in funzione delle intenzioni con cui la ragazza si trovava nel punto in cui la pallottola l’ha centrata. Era lì per manifestare? O era solo curiosità? Oppure passava proprio per caso? E possibile che non sapesse che poteva essere rischioso?

Io non so dov’è mio figlio. Se sta bene. Se è vivo.

Non è una scelta, stare qui, adesso.

Nadia è con me. Stiamo sempre insieme, in queste occasioni. Il marito se ne tiene lontano. Ci troviamo senza bisogno di dircelo prima.

Spettrale. La città è emaciata come un cadavere. Il colore dominante è il giallo sporco delle nebbie di Londra, in questa città che è solita turbare per gli azzurri delle sue sere, i bianchi delle sue chiese barocche e dei suoi archi romani, i grigi vivaci dei sampietrini.

Sono i lacrimogeni. Non c’è un corteo. Non c’è una manifestazione organizzata. Ci sono persone che sono scese al centro. Ad esserci. Camminiamo in due, massimo tre. Ci sono in giro di sicuro più poliziotti e carabinieri - con caschi e tute e armamentari vari e gipponi con le gomme da trattore e vetri coperti da griglie di metallo ad ogni angolo -  che persone.

Ci siamo. E’ importante che ci siamo. Cammino mano nella mano con Nadia. Non ci scambiamo una parola, a lungo. Ci stringiamo le mani sempre di più. Nadia sa di Emma, di nostro figlio. La sento vicina come nemmeno quando facciamo l’amore.

Girovaghiamo con l’aria ebete da finti ignari. Recitiamo richieste di informazioni ai capannelli di poliziotti che si fumano una sigaretta in un momento di pace e si danno coraggio raccontandosi storie sconce.

Siamo fortunati. Attraversiamo tutto il centro in lungo e in largo senza mai incappare in situazioni a rischio.

I rumori sordi lontani mi ricordano il cratere del vulcano. Don Isidoro. Juanito.

Abbraccio Nadia. Le indico i fumi stagnanti.

-         Ehi, se questa è l’aura della città, questa città fa schifo.

Non ci prova più a capire se dico sul serio o no. Da tempo non si mette più a puntualizzare che se pure dico che scherzo quello che ho detto l’ho comunque pensato e dunque vale la pena di discuterne.

Mi si accoccola sotto al braccio.

Se abbiamo lo stesso aspetto di quelli che ogni tanto incontriamo che spuntano dalla nebbia, allora mi sa che somigliamo proprio a fantasmi. Come da un racconto di Lowencraft.

-         Che ne dici?

-         Sembra finita; sono riusciti ad impedirci di manifestare.

-         Comunque ci siamo; siamo qui.

-         Sì, questo è vero.

-         Eravamo pochi.

-         Non è detto; è difficile da stimare, così sparsi.

-         E’ stato importante esserci, vero?

-         Sì, è stato importante.

-         Vieni, passiamo per l’isola.

Ci prende qui, l’acqua improvvisa, annunciata dalle nuvole scure incombenti ma ormai dimenticate e messe in secondo piano dai fumi dei mancati scontri.

Sul ponte pedonale.

Nessuno gira in macchina, comunque, oggi.

Ci siamo solo Nadia ed io. La pioggia è l’unico rumore distinguibile, adesso. Ci abbracciamo. Ci abbracciamo stretti sotto l’acqua fitta e penetrante. I bagliori sullo sfondo finalmente sono di lampi. Ci diamo un lungo bacio. Lungo. Denso di disperazione.

-         Resta con me.

Mi guarda interrogativa e ansiosa. E’ sempre stata pronta. Mi sta scrutando dentro al cranio passando, tra le gocce, dalle pupille, per capire che cosa intendo. Mi stringe le braccia con violenza. Stringe gli occhi, per farli più acuti.

-         Stasera, Nadia. Resta con me, stasera. Ti prego, resta.

Rilassa le mani. Mi guarda con amore e tristezza.

-         Lo sai che non posso. Devo tornare a casa.

Ci siamo lasciati così. Senza dircelo.


Oloferne (torna all'indice)

Questo, l’inizio:

Nabuccodonosor, re degli Assiri, convocò Oloferne, comandante in capo del suo esercito, che teneva il secondo posto dopo di lui e gli disse: “Così parla il gran re, il signore di tutta la terra: ecco, quando tu sarai partito dalla mia presenza, prenderai con te uomini di indubitato valore, circa centoventimila fanti e un contingente di cavalli con dodicimila cavalieri. Marcerai contro tutta la terra d’occidente, perché hanno disobbedito all’ordine della mia bocca. Ingiungerai loro di preparare terra e acqua, giacché nel mio furore muoverò contro di loro; coprirò tutta la faccia della terra con i piedi del mio esercito e ordinerò loro di depredarla. I loro feriti riempiranno le valli e ogni torrente e fiume rigurgiterà di cadaveri fino a straripare, e li condurrò prigionieri fino agli estremi limiti della terra. Tu dunque va e occupami ogni loro territorio; se a te si arrenderanno, me li conserverai per il giorno del loro castigo. In quanto a quelli che non si sottomettono, il tuo occhio non mancherà di consegnarli all’eccidio e alla rapina di ogni territorio a te affidato.

 

E questa, la fine:

…..lo trovò morto, disteso al suolo senza la testa che gli era stata portata via. Allora si mise a gridare con pianti e lamenti urlando con forza e strappandosi le vesti. Poi entrò nella tenda dove era stata alloggiata Giuditta e non la trovò. Allora si precipitò fuori davanti al popolo gridando: “Quegli schiavi hanno agito perfidamente! Una sola donna ebrea ha gettato la vergogna sulla casa del re Nabuccodonosor. Ecco. Oloferne giace a terra e la testa non è più su di lui!” ………..


Sì Madre, a Voi voglio raccontare tutto……

Come dite? Certo che ho già raccontato tutto agli anziani, per filo e per segno, certo che l’ho fatto.

E sì, certamente, sono stata completa, esauriente, non ho tralasciato particolari, sfumature, dettagli, in modo che possano scegliere in piena coscienza – quando, a gloria del Signore, scriveranno la storia di questi mesi così crudeli - a che cosa dare maggiore rilievo, che cosa tralasciare, che cosa trascurare.

Ho bisogno di farlo. Ho bisogno di condividere non solo i fatti accaduti ma i miei pensieri, i miei sentimenti, i miei timori …… chi può ascoltarmi meglio di Voi?

Sì, accogliete la mia testa sulle Vostre gambe, è bello stare così, sentire la Vostra mano sui miei capelli, come quando da bambina me li pettinavate e scioglievate i nodi e diventavano lisci lisci. Vi sono grata di questo momento di requie. Sono stati giorni terribili. Ed è adesso, è adesso che voglio non dico liberarmene - Vostra figlia non potrà dimenticarli per il resto della vita – ma completarne la memoria, in qualche modo esaurirli, svuotarli e consegnarveli affinché li custodiate per me e mi aiutiate a portarne il peso.

Scriveranno che “una sola donna ebrea” ha sconfitto un esercito come quello che Nabuccodonosor aveva affidato ad Oloferne.

E scriveranno il vero, se diranno di tutta la seduzione, la virtù, l’audacia, il sangue freddo, l’astuzia, la bellezza, la ferocia che ho speso.

“Una sola donna ebrea”. Ne sono orgogliosa. Sono orgogliosa di essere figlia di questo popolo. E sono orgogliosa di essere donna.

Sì, ricordo bene come gli Assiri avevano occupato tutte le sorgenti, e ricordo le cisterne vuote, e sì, Madre, sicuro, i figli di Betulia che venivano meno e si accasciavano senza nessuna energia, e ricordate anche Voi lo sconforto e le grida per non aver trattato la pace quando poteva essere il tempo………

Foste Voi, rammentate?, a raccontarmi come Ozia avesse convinto il nostro popolo a resistere ancora cinque giorni. “Cinque giorni”, diceste con voce tremante e so che non eravate preoccupata per Voi ma per la Vostra figlia …..

Perché mi interrompo, dite, perché resto in subitaneo silenzio?

Sembro essere altrove, dite?

E’ vero. Anche di questo voglio parlarvi, Madre.

No, di questo non feci parola.

Non potei.

Avviene adesso. Da qualche giorno.

Mi arrivano visioni da mondi sconosciuti.

Oh Madre. Voi potete credermi? Potete credermi se vi dirò che vedo me stessa con altri volti, e con vesti di fogge mai viste e di ricchezza strabiliante, e acconciature impensabili e tutto come se fossero altri mondi, e diversi tra di loro, e lontani nel tempo e nello spazio, sì, perché anche i luoghi, non solo le sembianze, sono ignoti, luoghi di cui né i miei occhi né alcun altro dei miei sensi hanno mai avuto esperienza.

Non so, non so come sia possibile …  ah sì, vi chiedo scusa se ho stretto con tanta forza il vostro braccio, vi ho fatto male? Non so come possa avvenire, sono visioni chiare, vere più dei sogni ma io le vivo da sveglia, e tutto tutto accade proprio come è accaduto, anzi per la verità no, taluni fatti accadono più volte in modi diversi e sono sempre io – lo sento, lo so che sono io, di questo sono certa, è questo che mi attanaglia il cuore – ma io con altri visi e altri corpi ed è come se tutto accadesse di nuovo e ogni immagine che mi appare ferma un’emozione, un sentimento, dei tanti che si mischiavano e sovrapponevano..…

Non so, Madre

Sì, Madre, sì..

Sì, ve lo esporrò quando si ripresenterà, nel preciso momento in cui la visione – chissà quale, chissà se non sarà nuova – si mostrerà, allora sì, io ve ne farò partecipe, è per questo che ho voluto parlarvi in questa stanza, lontana dai clamori del popolo che mi acclama ….

Ecco riprendo, riprendo da quando mi raccontaste di Ozia e dei cinque giorni concessi a Dio per dare un segnale.

Proprio così. Di questo si trattava. Il nostro popolo aveva concesso cinque giorni a Dio, prima di arrendersi e spianare la strada non solo alla vendetta degli Assiri ma al loro dispiegarsi, senza più ostacoli, in tutta la Galilea, a massacrare l’intero popolo di Dio.

Ah no, certo, nessuno l’avrebbe detto in questi termini.

Ricordate? Divenni furente, e Voi non potevate capacitarvi. Fui io a dirlo con queste parole “chi siete voi, che avete tentato Dio in mezzo ai figli degli uomini? Voi che volete mettere alla prova il Signore onnipotente? Se non siete capaci di scrutare le profondità del cuore dell’uomo, come potete scandagliare Dio? Chi siete voi che volete ipotecare i disegni del Signore nostro Dio?”

Talvolta, la sola parola, se è parola di verità, può cambiare la natura delle cose e degli eventi.

Così fu. Mandai la mia ancella a chiamare i capi. Essi vennero, ed Ozia con loro, alla tenda che, dalla morte di Manasse – da tre anni e quattro mesi il mio dolore è immutato, Madre, per la mancanza del mio sposo amoroso, e da tre anni a quattro mesi Voi sapete che io digiuno tutti i giorni, eccetto i sabati, le vigilie e i giorni di letizia del popolo di Israele – mi sono fatta costruire sul terrazzo di questa casa.

Da tre anni e quattro mesi vesto di sacco, Madre, e sì, ho colto i Vostri sguardi di angustia per la mia condizione, benché il mio caro Manasse mi abbia lasciato oro e argento e servi e ancelle e bestiame e terreni, e dunque la mia vita sia serena e rispettata.

Preannunciai un’azione che sarebbe passata di generazione in generazione, ma a nessuno dichiarai le mie intenzioni profonde. Gli anziani accettarono. Dovette essere la luce che il Signore mandava dai miei occhi a convincerli, o la disperazione del momento.

E’ vero, nemmeno a Voi, Madre. Foste Voi, insieme con la mia ancella prediletta, dopo che ebbi dismesso il sacco che testimoniava della mia vedovanza, a lavare con acqua di rose il mio corpo mortificato, a farlo nuovamente risplendere di unguenti preziosi che spalmaste con amore e con mano tremante, non osando chiedere ….. oh Madre, se sapeste da quale sottile vibrazione il mio corpo era percorso, se sapeste i miei sensi come erano tutti allertati ……. era come se le percezioni all’interno fossero moltiplicate e trasfuse in un’unica grande forza d’animo che il Signore mi infondeva ……

oh Signore, oh Madre, oh Madre Vi prego tenetemi vicina a Voi …… oh Madre arriva una di quelle visioni…. oh Madre come è possibile ….. io  sono al centro come di una piazza, scalini bassi, lunghi e di forma rotonda e allungata che contengono l’edificio da cui discendono e occupano tutto lo spazio degradando e io in cima al più alto e io – oh Madre, non posso credere, non capisco …… sì, è il mio viso  ….. anzi no, non è il mio viso, non è il mio corpo ma “sono” io, sono io …. – con una veste che mi scopre le caviglie, a piedi nudi, una veste preziosa di ori come non ne conosciamo e i miei seni sono stretti da un corpetto che li circonda e li stringe tutto intorno e in mezzo a loro e li fa come prorompere verso la folla, mentre tengo alta, per i capelli, la testa di Oloferne e la mostro al popolo di Betania ….. e dietro di me edifici altissimi, coperti da tetti rotondi e arcuati e davanti e intorno a me sacerdoti che danzano e suoni di flauto e battere di tamburelli ….. oh Madre sta svanendo ….. sì grazie, detergete la mia fronte sì …. acqua …sì …. grazie Madre oh Madre temo di perdere il senno perché è tutto sconosciuto è tutto diverso totalmente da quanto è accaduto eppure è tutto “vero”, lo vedo come se lo avessi vissuto così come mi appare e mi si presenta e la mia mente vacilla, Madre …. sì ….. dite che sono diventata bianca come il latte con cui mi nutrivate? ancora poco e mi riprendo ….. Vi ringrazio di essermi stata vicina … quando sono sola pianto le unghie nei palmi delle mani e prego il Signore di aiutarmi a capire …… ma certo, sono ancora ai preparativi prima della mia missione ….. rammentate con quale cura scelsi i bracciali, le collane, gli anelli, gli orecchini?

Così, Madre, supplicai il Signore, davanti alla porta di Betania: “Oh Signore, tu già in passato punisti gli stranieri che avevano profanato con ignominia e infamia le nostre vergini, e consegnasti alla morte e alla schiavitù i loro capi e i servi e le mogli e i figli, perché i tuoi figli diletti, inorriditi dalla profanazione, ti invocarono. E così oggi io ti invoco, oggi che mi accingo a superare questa soglia, oggi che ho dismesso gli abiti della vedovanza ed ho indossato gli abiti della lussuria, affinché in tuo nome la tua serva possa diventare la loro piaga e il loro flagello e abbatta la loro alterigia e la loro superbia. Così sia, mio Signore.”

Quando mi rialzai mi sentivo leggera come l’aria dell’aurora e forte come un giovane giunco. Oh Madre ecco ancora …… Madre la mia ancella dovrebbe portare un involto con vino e olio e fichi secchi e farina e pane, come quando uscimmo insieme da Betania …. E invece adesso io vedo la mia ancella che porta sulla testa un vassoio d’argento e sul vassoio è poggiata la testa di Oloferne!  E’ una testa grande, enorme! Oh Madre, Madre mia, mai mai vi giuro mai io feci una cosa tanto orribile oh sì vi dirò certo che vi dirò di come avvenne ma io adesso lo vedo come se fosse qui in questo momento e la mia ancella  è proprio la mia ancella e sono io che la guardo ma un vassoio di quella foggia non lo vidi mai e mai avrei …….. oh, oh Signore e io sono di schiena ma sono io anche con quel copricapo bizzarro e un panno e la mia ancella piega le ginocchia per darmi modo di coprire la testa con quel panno ma la visione si ferma qui non va avanti e mai mai quella testa viene coperta e per quanto io mi affanni quegli occhi restano sbarrati………perché questo alla tua serva oh Signore …Madre mia ……. oh povera me ….. perché piango dite ……. oh Madre quello che vedo adesso è terribile, Madre, è come se fossimo a un momento prima di quanto vi stavo dicendo e ora io ho in  mano la testa di Oloferne e la tengo per i lunghi capelli e il mio piccolo pugno è stretto forte – i capelli non scivoleranno, no -  e il mio viso è quello di una giovine che indossa una mantella del colore della notte e l’interno rosso su una veste di broccato giallo dove si staglia la nera barba di Oloferne …… e sento che mi guarda da dietro le palpebre chiuse ….. l’ancella qui mi interroga con lo sguardo ed è lei a tenere in mano un panno…. oh Madre, oh Signore perché questo alla vostra umile serva?

Grazie, Madre, grazie. Vedo dal vostro viso che siete preoccupata per me. Tranquillizzatevi. Non appena la visione passa io riprendo del tutto la mia piena coscienza e perdo la chiarezza dell’immagine che mi resta come un grumo opaco nella memoria e forse Voi ricordate meglio di me se ricordate le mie parole ma no, no, non voglio che me le ripetiate, no, voglio soltanto che mi siate vicina, grazie, Madre, grazie.

Dunque, attraversai a testa alta la porta che si socchiuse per lasciarmi uscire. Il diadema sui miei capelli risplendeva di luce.

Scendemmo il monte. Mai mi voltai. Sentivo su di me gli sguardi dalle mura, sentivo sul mio corpo l’ammirazione e le aspettative e il tremore di quegli sguardi. Scendemmo fieramente il monte fino alla valle, e il sole mancò proprio nel momento che girammo l’angolo del monte, e insieme al calare della luce e del calore sentii la mancanza degli occhi che non potevano più seguirci. So che c’eravate anche Voi, Madre, e ho continuato a portarVi dentro di me.

Erano uomini semplici, gretti e ignoranti, le sentinelle che ci fermarono, il mio solo incedere li intimidì. Ci sbarrarono la strada con cautela, si avvicinarono con circospezione, ci interrogarono quasi con devozione e rispetto, tale era lo splendore di cui il Signore mi faceva rifulgere. Sapete, Madre, ecco questo non l’ho detto proprio così ai nostri vecchi …… insomma fui convinta e convincente, quando dissi loro che fuggivo da Betania per consegnare ad Oloferne, e tramite lui al signore Nabbucodonosor, questi monti e queste valli e i loro abitanti senza che dovesse perdere un sol uomo – e infatti mi scortarono con cento cavalieri all’accampamento principale – eppure il mio cuore non rideva, dentro di me, all’inganno che stavo perpetrando e che pure il Signore mi ispirava ….. so che Voi potete capirmi, Madre …

Aspettammo davanti alla tenda di Oloferne. Intanto che il supremo condottiero veniva informato, fummo circondate dagli armati che erano lì accampati. Mai distolsi lo sguardo dall’ingresso della tenda. Mai, Madre, incrociai una delle paia di occhi ardenti che avevo addosso. Tuttavia – Madre, so che a Voi posso dirlo - sentivo sulla mia pelle il loro incanto e il loro desiderio………. e la mia pelle non voleva scappare da quegli sguardi, Madre, così diversi da quelli rispettosi e come disillusi – verso questa vedova che vestiva di sacco - degli uomini di Betania.

Fu la guardia del corpo di Oloferne a introdurci al suo cospetto.

Oloferne era adagiato su di un lungo e morbido divano, sotto a un baldacchino di porpora ricamata d’oro e di smeraldi. I suoi occhi, tuttavia, incastonati in un viso di pietra scura sormontato da neri e lunghi capelli, rilucevano di una forza più luminosa delle pietre preziose.

Parlò. La sua voce era calda come non ci si poteva aspettare da quel viso di ghiaccio, incorniciato da fiaccole d’argento:

-         Puoi sollevarti, donna. Siamo un popolo che ama la pace. Se il tuo popolo non mi avesse disprezzato……. sono  loro ad aver voluto così …. abbiamo consuetudini raffinate, anche se la lunga abitudine alle armi può offuscarle ai tuoi occhi splendenti. Puoi restare in pace. Sei la ben accetta, tu che ti inchini a chi rappresenta il grande Nabuccodonosor.

Ecco, avevo finalmente di fronte la causa delle nostre sventure, delle sofferenze del nostro popolo, del suo dubitare della grandezza del nostro Signore Iddio. Dovevo essere docile come gazzella e convincente come il serpente che dondola la testa prima di colpire. Lasciai un passo indietro la fida fantesca, e così risposi, a testa china e voce squillante:

-         Prode Oloferne, dalla mia bocca udrai soltanto parole di verità, perché Dio mi manda a te per un’impresa che sbalordirà il mondo intero e che per i secoli a venire sarà cantata per quanto sono larghi i possedimenti del grande Nabuccodonosor.

-         Dunque, perché sei fuggita dal tuo popolo e sei venuta presso di noi?

Dovevo solo continuare così, Madre mia. Il grande Oloferne non dava mostra di sospetto. Il Signore era con me e aveva offuscato il suo intelletto.

-         Mio signore, il mio compito – affidatomi dal mio Dio – è che per mezzo della tua spada e della tua sapienza il mio popolo sia riportato sulla via del rispetto e della sottomissione.

Oloferne mi guardava sbalordito: come poteva il nostro Dio aver scelto la sua spada, la spada del nemico del nostro popolo?

-         Mio signore, concedimi di affermare che capisco il tuo turbamento. Sii paziente con me e permettimi di esporre con compiutezza ciò che il mio Dio, tramite questa indegna sua serva, ti manda a dire.

La postura di Oloferne era cambiata, Madre: da reclinato mollemente di lato sui cuscini adesso era piegato intento verso di me. I suoi occhi mi passavano da parte a parte.

-         Il mio Dio è preso da grande ira contro il popolo di Betulia, che non ha saputo superare le prove che la Sua Sapienza gli aveva mandato tramite il tuo esercito, ed ha bestemmiato le regole sacrosante di non toccare per nessuna ragione le primizie del frumento e le decime del vino e dell’olio che dovevano essere conservate santamente per i sacerdoti.

Sollevai la testa, Madre, e miei occhi fiammeggiavano senza sforzo alcuno, al ricordo di Ozia……

-         Ha scelto me, il mio Dio, per raddrizzare la schiena del mio popolo. Essi non possono essere toccati – credimi, credimi, mio signore Oloferne – nemmeno da un esercito così potente come il tuo, finché hanno rispetto del loro Dio, ma diventeranno come giunchi sfilacciati dopo che avranno disobbedito al loro Dio, e questo sta per avvenire a giorni, mio signore.

Abbassai la testa. La mia voce si fece bassa. Eppure ferma.

-         Essi, infatti, hanno mandato messi a Gerusalemme, per avere una complice conferma da coloro che là hanno già compiuto tale scempio delle sacre leggi. Quando i messi torneranno, mio signore, e il mio scellerato popolo attuerà l’infausto proposito, allora io lo saprò, perché Iddio me lo dirà, e te ne informerò, e tu potrai conquistare senza resistenza Betulia e Gerusalemme e tutta la Giudea, affinché il mio popolo impari di quali sciagure sia foriero il non rispettare la legge di Dio.

Tacqui, e chinai la testa finché il mento non toccò il petto, Madre mia. Ansimavo. Temevo che il mio volto rivelasse l’inganno. Raccolsi tutte le mie forze e sollevai la testa fiera. Incontrai lo sguardo intento di Oloferne. Non gli era sfuggita la mia emozione. Il mio viso fu di fuoco e sentii tutto il corpo riempirsi di calore come mai mi era accaduto, Madre mia. Oloferne taceva e mi indagava. Poggiai le mie mani sui seni come a frenare il sangue che sotto scorreva incontrollato, sotto quello sguardo forte e ……… oh Madre, era lo sguardo di un uomo ……. come posso dire ….. mi verrebbe da dire giusto, lo sguardo di un uomo giusto ……. no non si può definirlo tale, lo so, come dite? un filo di voce? certo ….. renderò meglio il seguito …… infatti ripresi così, con voce stavolta tremante:

-         Mio signore Oloferne, tu che hai combattuto e vinto mille battaglie e conosci l’animo umano, sai che questa umile serva davanti a te non ha l’animo della traditrice. Tu sai che io non sono qui per tradire il mio popolo – non potrei mai - ma per ricondurlo sulla retta via. Io sono solo lo strumento del mio Dio. Ti scongiuro di dare credito a questa tua serva. Basteranno pochi giorni, e la volontà del mio Dio si compirà e tu e le tue armate e Nabuccodonosor ne trarrete beneficio senza nulla perdere. Mi credi, mio signore Oloferne?

Queste ultime parole, Madre, le pronunciai con voce roca, tremula e decisa. Non avevo bisogno di fingere. Oh Madre, Madre di nuovo una visione ……  Madre sì, lì mentre aspettavo la risposta di Oloferne – il momento era certo decisivo – la mia mente già lavorava a come avrei potuto prenderlo……… ma adesso ………. adesso ………. o Dio Dio Dio che visione orribile o Dio Madre io allora non volli guardare credetemi e adesso … io non posso aver visto questo, Madre …….. Madre …… è il corpo di Oloferne  che mi poggia sulle gambe ma non ha la testa e invece ….. orribile, orribile, oh come ho potuto ……. oh Madre …… è un cerchio rosso di carne con sangue che schizza come sorgente dalle vene tagliate di netto e il mio viso è come soave …… oh Madre io non ero così io non mi sentivo così ……… sì, grazie, sono stanca, sì, ma no, no, voglio continuare ……. ho urlato? Vi chiedo scusa….. voglio continuare, Ve ne prego, se mi interrompessi, non so se sarei capace di riprendere…..

-         Tu mi appari come una donna di bell’aspetto e di parole sagge. Se le cose andranno come dici il tuo Dio sarà il mio Dio, tu siederai nel palazzo di Nabuccodonosor e sarai famosa in tutta la terra. Così sia.

-         Ora …

Riprese Oloferne.

-         … imbandite la tavola nella tenda degli argenti e apparecchiate con cibi e vino. Sarete mie ospiti.

-         Ti rendo grazie, mio signore Oloferne, per l’onore che ci fai. Pure, come vedi, con la mia ancella abbiamo portato i cibi che il nostro Iddio prescrive, e solo quelli toccheremo, perché solo se resteremo in tutto nei precetti continueremo ad essere considerate degne della Sua preferenza.

-         Come volete. Ma come farete quando li avrete finiti? Tra noi non c’è nessuno della vostra gente!

Madre: non era diffidenza, io sentivo vera cura per il nostro benessere. La luce che emanava dai miei occhi lo raggiunse nel centro delle pupille quando, eretta, la testa alta, lo rassicurai:

-         Oh mio signore Oloferne, questa tua preoccupazione per noi è certo segno del tuo rispetto, ma puoi stare tranquillo che quelle provviste non saranno state consumate prima che la mia mano abbia compiuto ciò per cui il mio Signore mi ha mandato a te!

Fui condotta con la mia ancella in una tenda e dormii di sonno pesante. In quell’ora in cui il chiarore del giorno che sta per sbocciare si confonde con la luce della luna, mi alzai e dissi alle sentinelle di chiedere ad Oloferne di farmi uscire lontano dalla tenda per pregare.

Per tre notti arrivai alla sorgente, nella valle di Betulia, dove mi purificavo con quell’acqua limpida. I sensi erano confusi dal silenzio percorso dalla brezza mattutina che le mie mani inseguivano sulla pelle profumata di oli. Pregavo il signore Iddio di darmi la forza di liberare il mio popolo. I miei sensi erano confusi anche dall’ombra di ogni pietra che, alle prime luci, aveva le sembianze della barba nera di Oloferne, e da ogni fessura delle rocce che mi appariva nella forma dei suoi occhi taglienti.

Restavo tutto il giorno nella tenda fino a sera, quando con la mia ancella consumavamo le nostre provviste.

La quarta sera Oloferne mi mandò a chiamare.

Ero pronta. Ogni sera ero stata pronta. Pure, Madre, comprendetemi: il mio cuore sussultava per la grandezza di quanto si stava per compiere, ma non tutti i suoi battiti seguivano lo stesso ritmo. Fermo. Si fermava senza fiato. Riprendeva con una scarica e poi di nuovo al passo veloce ma regolare. Sicché giunsi al suo cospetto con l’alterigia della regina e l’affanno della fanciulla. Il mio aspetto dovette turbarlo, perché interruppe, improvvisamente, nell’istante stesso in cui scostai il drappo d’ingresso della tenda, la sonora risata che lo scuoteva e subito poggiò il calice sul tavolo.

La mia ancella mi aveva preceduto, ed aveva steso vicino ad Oloferne le pellicce di cui mi aveva fatto dono all’arrivo.

-         Benvenuta. Ti ringrazio di esserti voluta unire alla nostra festa. Oggi è giorno di allegrezza perché sento che si avvicina il momento in cui, grazie a te, questo lungo assedio avrà termine.

-         Come avrei potuto contraddire il mio signore Oloferne? Qualsiasi cosa di me ti possa allietare io la farò con gioia.

Madre, ecco, sono queste le parole che pronunciai, e queste ho detto ai nostri anziani. Solo a Voi, solo a Voi, che mi generaste, che mi avete accompagnato con il Vostro amore in tutta la mia vita di fanciulla allegra e rispettosa e sposa amorevole e fedele, solo a Voi posso dire che le parole che pronunciai mi venivano da dentro, Madre. Non avevo bisogno di mentire. Erano parole mie, Madre.

Sì, piango. Certo che piango. Grazie. Grazie. Certo che voglio continuare. Grazie.

Aggiunsi il mantello alle pellicce già disposte e mi adagiai. Sentivo il suo odore acre. A lui arrivava il mio profumo di sandalo. Aveva come una luce intorno ….. oh Madre ancora una visione …. sono in piedi , il mio volto è implacabile …….. Oloferne è seduto a schiena eretta, le mani poggiate all’indietro non si difendono dalla mia mano sinistra che lo tiene dai capelli sulla fronte e dalla mia mano destra alzata pronta a vibrare la scimitarra……. oh Madre non fu così, non fu così ….. Madre mia riuscirò mai ad essere ancora la Vostra figliola dolce e tenera? sì, ditemi che riuscirò …….. sì, grazie, grazie Madre ……. quella notte Oloferne condivise con me, come con una fidata amica, le sue aspirazioni di pace e riposo, una volta finita la guerra, e danzò, e bevve vino, e mai fu men che rispettoso, anche se i suoi occhi erano braci di desiderio.

A notte tarda erano tutti esausti, ed Oloferne li congedò. Fece cenno imperioso di uscire anche al suo fido Bagoa, che chiuse la tenda dall’esterno.

Restammo soli. Oloferne mi prese per mano, con delicatezza mi condusse verso il suo letto. Pregai con tutte le forze il signore Iddio, Madre, di liberarmi dal tormento che dal calore delle sue dita si spandeva per il mio corpo. Pregai con tutte le mie forze, Madre, mentre quella mano forte mi guidava. Ahahahahahah …. lo vedo, lo vedo, Madre, vedo il suo corpo  quando fu ritrovato dai suoi amici, io non ero là, Madre, io ero già sulla strada di Betulia ………. oh non voglio uscire di senno Madre …… io adesso vedo una tenda con drappi azzurri – ed era invece del colore della sabbia del deserto – e bordi dorati, e vedo Bagoa chinato a scostare il lenzuolo e gli altri – uno su un cavallo bianco – intorno, i visi sconvolti. E vedo lui, Madre, quel corpo muscoloso ed agile, quella bella mano poggiata sul margine del letto, oh come ho potuto, e vedo l’orribile ammasso di sangue e carne viva – ancora palpita, ancora è caldo – che è ciò che è rimasto tra le spalle dopo che portai via la sua testa come trofeo.

Sono diventata del colore della luna? Sì, Madre, sento il cuore che si ferma e la testa che svanisce ma voglio restare con me stessa e con Voi, non voglio farmi trascinare ………… oh Madre grazie di essermi vicina, grazie, questi singhiozzi senza lacrime squassano anche Voi, dite? Mi dispiace di darvi tanto dolore ….. sì, grazie…..

Molto vino Oloferne aveva bevuto ma, al contrario di quanto sarà scritto, non abbastanza da farlo subito crollare. Come dite? Vi sto facendo male alla mano? Scusate. Sì, è meglio se mi prendete le mani nelle Vostre e le carezzate una ad una, sì, questo mi dà sollievo.

Dorme di un sonno appagato.

Mi alzo. Lucida. Determinata. Mi rivesto.

Alla colonna del letto sta appesa la scimitarra di Oloferne. La sfilo – il Signore guida il mio braccio e gli dà forza – senza avvertirne il peso.

Nessuna esitazione. Prendo con la sinistra la nera chioma e calo la destra sul collo scoperto. Il gorgoglio indistinto, come se il sangue mi parlasse, non esce dalla bocca che pure si apre.

La sua mano stringe il lenzuolo.

Dal taglio netto di più di metà del collo il sangue fiotta con gli intervalli del respiro. Tiro con forza in su i capelli: la testa non si stacca.

I suoi occhi si aprono.

Poggio la scimitarra a terra. Raccolgo la sua nuca nelle mani e spingo in avanti, ad impedire che il suo sguardo mi incontri. Il sangue smette di schizzare. Le carni si stanno riunificando. Sto lì con la sua testa in grembo e il Signore non è più con me, Madre. Scosto i suoi capelli dalla fronte e vedo le palpebre a mezza corsa, come se si fossero aperte e per lo sforzo fatto stessero tornando giù, tuttavia resistendo alla discesa.

Per il secondo colpo faccio roteare la spada dal basso in un intero arco e quella cala giù netta a troncare ossa nervi muscoli residui tra capo e spalle. La testa mi resta in mano, ben salda sui capelli.

Chiamo l’ancella. Mi rassetto. Poggio la testa di Oloferne nella cesta. Usciamo come le altre notti uscivamo per pregare. Le sentinelle ormai riconoscono le nostre abitudini e non ci fermano più. Torniamo a Betania.

Il resto, Madre – l’esultanza del nostro popolo, il saccheggio dell’accampamento assiro dopo la distruzione del loro esercito – lo abbiamo vissuto insieme.

No, no. Non posso dire che il mio animo si sia pacificato.

Non so se mai il Signore me lo concederà, Madre.

Forse, Madre.

Sì, Madre.

E’ possibile, Madre.

Ci ho pensato anch’io, Madre.

E’ qui. Nella stessa cesta. Vedete: ha assunto come un’espressione di stupore.

Ma no. No. Non voglio liberarmene. Voglio aspettare. Finché quelle palpebre, un giorno, non possano finire di aprirsi.

 


Giorgio (torna all'indice)

E così, eccomi in cima. Nudo, comodo dentro alla giacca a vento morbida che mi fa da giaciglio.

E’ un maschio. Me lo disse anche il Cardinale. E poi Emma aveva la pancetta a punta.

Oggi ha quarant’anni.

Non ho potuto conoscerlo. Non ho voluto cercarlo. Ho fiducia in lui. Una parte di Emma è in lui. Una parte di me è in lui. Voglio aver fiducia nella natura, nella biologia, nei cromosomi, nel dienneà. Ho fiducia che, da chiunque gli sia stato vicino, sia stato capace di prendere il meglio. Voglio ricordarlo come l’ho immaginato in questi anni, mentre cresceva, mentre giocava con gli altri bambini, mentre imparava a leggere e scrivere e imparava a ribattere agli insegnanti e cominciava a sentire dentro di sé qualcosa come “questo sono io, nessun altro è così”. L’ho seguito giorno per giorno, in tutti questi anni. Come ho portato con me il sorriso di Emma che lo aspetta che torna da scuola, che ha apparecchiato per la cena tutti insieme, con gli altri fratelli e sorelle mai nati. La forza di Emma. La sua determinazione. Il suo amore. L’ho visto diventare adolescente e pian piano trovare la sua strada. Una strada giusta, ne sono certo. Ti auguro di continuare a vivere la tua vita pienamente, figlio mio. Niente altro.

E’ stato davanti al cimitero che sta dietro le Sacre Coeur. Sono scesi annaspando come turisti ubriachi da un grande pullman. Tutti vestiti di bianco, con larghe cinture marroni. Non ci hanno messo molto, ad aprire gli sportelloni laterali e a tirar fuori gli strumenti. Pioviggina. L’asfalto di Parigi è particolarmente grigio, quando piove. Sono allegri, alcuni addirittura a torso nudo. Proprio ubriachi, no, ma un po’ brilli, sì, questo sì, si può dire che siano brilli.

Siamo davanti al cimitero. Alle spalle del Sacre Coeur. Stanno suonando soltanto per me. Mio figlio. Dove sarà? Non sono mai stato a Parigi con Emma. Non sono mai stato a Parigi con la principessa. Né con Nadia. Non sono mai stato a Parigi, prima. Dunque perché, quando scendo tra i fiori acquatici di Matisse, la testa mi gira e devo sedermi e chiudere gli occhi? E perché sento la mano della principessa sul mio ginocchio e il profumo dei capelli di Emma sulla spalla? Chi c’era con me a Place Vendome, di notte, freddo, mentre un uomo enorme in canottiera con i baffoni alla Asterix, apostrofa, spingendolo con il pancione solido e la vociona tonante, un giovine benvestito? Con chi sono seduto nel ristorante elegante davanti a un piatto immenso di frutti di mare e crostacei adagiati su alghe verdi? E con chi nel bistrot fumante di crepes, mentre una voce melodiosa intona Summertime a fianco del pianoforte bianco carezzato dal pianista nodoso, che ogni tre quattro brani si ritira e torna con addosso l’inconfondibile odore di canna? Chi mi stringe la manica mentre il vento ci sferza, alla ricerca di una stampa originale? Per quale casa la stiamo scegliendo?

Non sono mai stato a Parigi, prima.

Coltiviamo soltanto l’illusione, di sentimenti chiari e distinti.

Se mi sforzo di fare mente locale, sì, certo, forse ritroverò la passeggiata lungo il fiume o la cavalcata o la carezza non maliziosa o l’odore di zuppa o la scopata o il profumo di lavanda che si sono associate, ora, ai grattacieli della Defence, e ieri alla stazione della metropolitana e domani alla piramide trasparente. Ma: non è il momento di sforzi. Anzi, mi piace lasciar confondere i ricordi, farli mischiare alle fantasie, e farli correre dietro alle note dei tromboni, dei clarini, della grancassa.

Non ho avuto difficoltà, a trovarlo. Ho cercato l’indirizzo della clinica – ricordate? ne parlava l’articolo del giornale di Ximena – in cui è ricoverato il suo Presidente dopo la caduta da cavallo.

L’ho trovata sulla cartina di Parigi. Facile.

Ho cercato negli alberghi più lussuosi nei dintorni.

Sono sicuro che la clinica avrà riservato un angolo ampio, se non un piano intero, alla corte che assiste il Presidente.

E, allo stesso modo, sono sicuro che il mio amico si sarà attrezzato una stanza comoda, a portata del Presidente, per impiegare al suo meglio questo forzato prolungamento di vacanze francesi.

Alla seconda telefonata, l’ho trovato. Facile.

Quarantanni. Sono quarantanni. E adesso eccolo qui.

E’ una giornata di rara perfezione di temperatura: sole, brezza leggera, i cigni nel laghetto artificiale del parco. Sto riflettendo. Ho bisogno di riordinare le idee. La panchina è comoda. Posso appoggiarmi bene indietro e allungare le gambe.

La pelle del cuoio capelluto è rosa ma talmente rosa che traspare dal fittissimo casco biondo che la copre. Sarà mezz’ora che, con un papà paziente e una mamma incinta di non meno di otto mesi, dalla pancia enorme, raccoglie pigne vuote di tutte le misure e le accatasta. Si avventura, con le mani dietro alla schiena, impavido, per un pendio erboso. Ruzzola impacciato. Si riempie il musetto di terra. Si rialza corrucciato. Uno sguardo verso i genitori. Un sorriso splendente tra colpi di tosse dei postumi di una bronchitella cittadina.

Sarebbe potuto essere così. Emma di nuovo incinta. Nostro figlio che cresce tra di noi.

Si avvicina a me. Ha in mano una pigna più piccola di cipresso. Me la offre.

-         Grazie!

Me la metto nel taschino della camicia. Batte le mani e fa un saltello. Resta immobile, come se riflettesse sul da farsi. Mi dà le spalle. Si avvia con passo serio e torna con tre nuove piccole pigne. Una ad una, me le infila nella tasca fino a riempirla. I genitori lo richiamano, preoccupati che non mi sia di disturbo. Faccio loro cenno che per me è uno spasso. Ha pantaloni sotto al ginocchio, con il rigonfio del pannolino, sandali tipo francescano, una t-short arancione di un paio di misure in crescita, e un perfetto taschino giallo che spicca.

Ad ogni pigna che gli restituisco nel taschino lancia un gridolino di sorpresa, si batte la mano sulla tasca, e dice qualcosa che non capisco rivolto ai genitori.

Lo imito con qualche variante: ad ogni pigna che trasferisce nel mio taschino, alzo gli occhi al cielo, mi arruffo la barba, batto i piedi, mi do un colpo sul petto.

Ci facciamo un sacco di risate a bocca aperta.

Impazzisce quando batto i piedi e si solleva un po’ di polvere. Li batte a sua volta e guarda in terra per vedere se riesce ad alzare più polvere di me.

Va a prendere altre pigne.

Sarebbe potuto essere così.

Mi alzo e me ne vado. Quando sono a una cinquantina di metri mi giro. Mi dispiace di non averlo salutato. E’ intento a caricare le pigne nel camion ribaltabile di plastica. Torno al mio albergo.

Sto cercando ispirazione. La troverò.

Sono entrato a prendere un caffè. Hanno una macchina italiana. Il barattolo di caffè tostato da macinare, bene in vista, pure italiano. Forse rimedio un caffè decente. In fondo è uno dei migliori alberghi di Parigi. Sono imprudente. Se ci incontrassimo e mi riconoscesse? Perché no? Come l’ho riconosciuto io dalla foto. Perché no? Ho la barba bianca. I miei lineamenti sono cambiati più dei suoi. E se anche ci incontrassimo e mi riconoscesse? Allora? Che cosa ne sa? Una coincidenza. Che cosa ne sa? Farebbe finta di niente. Che cosa ne sa?

Il caffè è buono.

Il soffitto è un’immensa vetrata liberty. Uno spettacolo di luci riflesse. Mi guardo in giro. Intorno scorre il lusso. Straripa la ricchezza.

L’ho preso senza zucchero. Il sapore corrisponde all’aroma. Inaspettatamente ottimo, con un retrogusto di cacao.

Nella hall, un gruppo di buzzurri internazionali, dai vestiti stonati su quelle raffinate stoffe dei divani, vocia intorno ad un vassoio di birre scure. Non capisco la loro lingua - forse sono slavi – ma, dalle risate strozzate che suscita, è trivialmente intuibile il commento all’incedere del giovane cameriere dalle movenze gentili che ritira il vassoio e chiede se desiderano altro.

Va bene. Non oggi. Non oggi. Ho bisogno di riflettere ancora.

Sono partito senza riflettere, appena l’ho riconosciuto dalla foto. Adesso, su che cosa devo riflettere? Così vicino e così lontano. Così inutile.

Emma.

E’ venuta a danzare con me, nella stanza d’albergo.

E’ stata una perdita irriducibile. E una ricchezza inestinguibile. Una presenza costante.

“Questo l’ho provato soltanto con te”. Per definizione è una frase sempre vera. E sempre falsa. Siamo fatti del nostro passato. Di che cos’altro, se no?

Si ripete. Si ripete in forme che a volte appaiono nuove.

Dico cose confuse? Me ne rendo conto. Ho preso una decisione importante. No. Non ho preso alcuna decisione. La decisione ha preso me. Non era resistibile. Non sto riflettendo dunque sul “se”. Solo sul come e sul quando. Sul dove. Nemmeno sul perché. Eppure il perché non è del tutto chiaro. Forse sarebbe bene approfondirlo. Tuttavia la necessità mi è chiara.

Per quanto, nulla è davvero necessario. Invenzioni umane. Illusioni di governare il mondo. Non mi preoccupo più dei paesaggi sventrati dal cemento, da quando mi sono reso conto della rapidità ed efficienza con cui erbe e animali di tutti i generi riprendono il loro posto anche solo nei solchi tra una mattonella e l’altra del mio giardino, e di come le radici del pino stanno svellendo le mattonelle del lato sinistro e piegando l’inferriata del lato destro. E ricordo la radice del noce – fu abbattuto, per questo – che risultò essere la responsabile del blocco dell’acqua di un intero quartiere, visto che andava ad abbeverarsi, e si era lì introdotta e moltiplicata, da una piccola perdita dal tubo portante. No, non mi preoccupo più dell’insensatezza. Non più, da quando ho la consapevolezza – vaga. vaga consapevolezza – della sterminata serie di variabili incontrollate e incontrollabili che pretendiamo di tenere a bada nella nostra smisurata aspirazione al controllo.

Dunque – “dunque” sembra proporre un collegamento, che forse c’è ma che se c’è non so più da dove venga – tanto vale seguire la necessità. Quella che sgorga dentro, talvolta. E’ rara. Tuttavia, quando ti preme dentro, la riconosci. Scansa con noncuranza qualsivoglia tappo puoi averci messo per tenerla a bada. Le puoi trovare le ragioni, dopo. Questo è sempre possibile. E’ la specialità umana, rendere “ragione” di ciò che è avvenuto. Costruire un senso.

Emma si è confusa con Nadia, con Ximena, con la Principessa. E’ giusto? Che cosa vuol dire che si è confusa? In quale modo si sarebbe confusa? I vostri lineamenti sono diversi. Li ho in me distinti. Le vostre mani. Il modo come mi hanno toccato. I vostri odori. La vostra pelle.  I vostri profumi. I vezzi. Le scontrosità. I tradimenti. Il pianto. Il riso. L’abbraccio. Le tristezze. Le allegrie. I piatti cucinati. Quelli gustati assieme. Le marmellate. Ogni singolarità ha un suo luogo. Sono pieno. Che cosa vuol dire? In quale modo sarei pieno? Sono sazio? Ne ho avuto abbastanza? Di che cosa? Sommo le presenze? Oppure moltiplico le mancanze? Che cosa c’entra tutto ciò con Juanito? Come, non l’avevate ancor capito? Si tratta di Juanito. E’ lui che ho riconosciuto nel giornale con Jale e Sisara, presentati lì come Giuditta e Oloferne, che mi diede Ximena.

Sono passati tanti anni.

Nostro figlio.

Emma è morta. Me lo disse il Cardinale.

Anche il Cardinale è morto.

Anche don Isidoro. Qualche anno dopo Emma. E’ scomparso e non se n’è più saputo niente.

E Nadia?

E la Principessa?

E Ximena?

Che differenza fa se sono morte o scomparse altrimenti alla mia vita?

Ximena è l’unica con cui è rimasto qualche contatto. E’ stata di parola. Ogni tanto mi scrive. Mi mandò il suo lavoro su Giuditta e Oloferne. E’ suo il capitolo precedente. Scusate la precisazione. Questo l’avevate di certo capito. Non mi rendo più bene conto della tenuta dell’insieme. Ho bisogno di queste conferme.

A volte sogno Emma. Nel sogno faccio l’amore con Nadia. Mi sveglio e penso alla Principessa. Mi alzo e scrivo una lettera a Ximena.

Domani lo ammazzo.

Adesso esco da questo bar dove fanno questo buon caffè.

L’aria è ancora fresca.

Domani lo ammazzo.

I giardini che attraverso lentamente sono pieni di odori colorati.

A che servirà?

Nel mondo si parlano circa seimila lingue.

Più di quattromila sono considerate a rischio. Gli esperti considerano a rischio le lingue parlate da meno di centomila persone. Cinquantuno lingue sono parlate da una sola persona. Quando leggerete, questo numero sarà probabilmente diminuito.

Con la morte del signor Bagon, del Cameroun, la lingua Kabase non è più parlata. E così la lingua Ubyku, del nordovest del Caucaso, dopo la morte del signor Tefvik.

E’ una cosa buona o una cosa cattiva, che il numero delle lingue diminuisca?

La Nuova Guinea ha una superficie maggiore di Francia e Italia messe insieme. Ci sono circa quattro milioni e mezzo di abitanti. Parlano milleduecento lingue diverse.

Una lingua nasce dalla separazione. Due popolazioni che parlano la stessa lingua, se rimangono isolate e non comunicano tra di loro, a poco a poco differenziano il linguaggio che si scinde in due dialetti i quali, a loro volta, nel tempo, diventano due lingue diverse.

Ogni lingua costituisce una rappresentazione del mondo diversa da ogni altra.

Ogni lingua ha parole che le sono proprie, non traducibili. Per rendere il senso della parola ceca “litost”, Kundera, ne “Il libro del riso e dell’oblio”, ha impegnato tre pagine, all’interno di un capitolo di più di quaranta pagine, intitolato proprio “Litost”.

La diversità delle lingue è dunque una ricchezza.

Me ne sto seduto in uno di questi bar parigini con le vetrine sulla strada, a fumare una santa gouloise, con questi pensieri.

A chi gliene può fregare? A chi gliene può fregare davvero, se le lingue muoiono?

Forse è meglio. Forse sarà più facile capirsi. Non fu una punizione divina la confusione delle lingue alla Torre di Babele? Forse col tempo resterà una sola lingua, che si impoverirà (o semplificherà?) alle due-trecento parole base necessarie a comunicare l’essenziale.

L’essenziale. Che cos’è l’essenziale?

La pienezza della nostra vita, è l’essenziale. Davvero null’altro. Ogni singolo poro che prova piacere nel traspirare. Questo è l’essenziale. Come qui, adesso, su questa cima.

L’aumento dei sensi unici. L’avete notato? Il traffico si semplifica. La nostra possibilità di scelta cala drasticamente. Anche alcune fonti di angoscia, di conseguenza. E’ un bene o un male?

Vale la pena vivere perché ogni essere umano parla una sua propria lingua che, quando viene in contatto con la nostra, costruisce significati nuovi dell’esistente.

Non sono mai stato stanco, di questo. Sono stanco delle mancanze, delle unicità perse, dei buchi sempre più profondi per gli abissi inesplorati, stanco di affacciarmi su nuovi abissi senza essere capace di percorrerli fino in fondo.

Domani lo ammazzo.

Qui ho preferito un caffè turco, che almeno si sa come è fatto e mi piace sentire sulla punta della lingua il lieve deposito della polvere tritata finissima.

Poi prendo il primo volo. All’arrivo: un taxi e a casa. Mi preparo lo zaino. Una doccia. Una bella dormita. E la mattina presto un bel caffè e partenza per la faggeta.

Chissà che fine avrà fatto Goffredo. Chissà perché mi diede quella coltellata. Era un uomo torvo. Non si sapeva mai che cosa gli poteva passare per la testa ........ mha ........... come se fosse stato necessario, come se la sua mano fosse stata guidata – invece che da chissà quale intento personale – da una superiore necessità.

Ecco, quando dico che ricostruiamo un senso agli avvenimenti, intendo qualcosa del genere, in cui le singole pazzie si ricompongono in un qualche disegno con una forma compiuta.

Dev’essere andata così che ci siamo costruiti Iddio. Per la fatica di trovare un senso ai fatti.

E’ come nella ricerca scientifica: ad ogni fatto che contraddice il paradigma, bisogna aggiustare la teoria e ricomprendervi il nuovo fatto. Se le contraddizioni aumentano, si può anche inserire qualche “adhoccheria”: le chiamano proprio così, quelle “eccezioni” che mantengono valida con gli spilli la teoria di base. E’ costoso cambiare teoria. Tuttavia, quando le contraddizioni diventano troppe, allora bisogna costruire una teoria tutta diversa, che ricomprenda organicamente i nuovi fatti. A mano a mano che si procede, le teorie “abbracciano” più fatti. L’ideale è trovare un principio esplicativo unico che dia ragione della vita, dell’energia ..... non sarebbe aver trovato iddio?

Avevo tradito la fiducia del Principe. Questo il fatto. Niente altro.

Il tradimento. Mha.

Stiamo nel mondo in relazione con altri, uomini e donne. Se sempre potessimo mostrarci fino in fondo come siamo, la parola “tradimento” non avrebbe corso legale. Nessuno potrebbe “aspettarsi” alcunché. E’ l’impossibilità di mostrarci come siamo, che ci impone di comunicare come siamo. Fa una certa differenza. Altroché se fa differenza.

Sembra non esserci scampo, al fatto che noi per primi non possiamo vederci come siamo, e che abbiamo bisogno di ricomporre i tanti riflessi che ci vengono restituiti da chi incontriamo. Da qui gli equivoci, i fraintendimenti.

I tradimenti.

Chissà che fine ha fatto Goffredo. Di lui, non mi è proprio interessato sapere. Della Principessa, non ho più voluto sapere. Il dolore più forte fu di non averla vista in ospedale. Ogni giorno, da quando ripresi conoscenza, aspettavo di vederla apparire sulla porta. Pensai che si fosse limitata a guardarmi tramite la Giuditta di Klimt.

Me ne torno verso il mio albergo. Sta in un viale tranquillo. Mi piace vedere la mattina presto, dalla finestra, lo sgorgare dell’acqua ai margini dei marciapiedi e le lunghe scope di sagina che accompagnano i rifiuti nei tombini. L’ho visto solo a Parigi, questo metodo.

Domani.

Come se bastasse la mia decisione.

Emma si addormenta vicino a me. Mi giro per abbracciare il cuscino. Le mie mani si ritrovano sotto al culo della principessa. L’odore degli oli sulla pelle di Emma. Nadia me lo sta succhiando a tutta bocca. Bacio Ximena, della quale a malapena ricordo i contorni del viso. E’ la mano di Nadia che mi scorre sulla schiena e mi provoca riflessi di piacere fin sulla pianta dei piedi. Il seno pieno di Emma mi preme morbido e sodo. L’ansimare dietro l’odore delle ascelle eccitate è della principessa.

Mi sveglio di botto, col cazzo duro e dritto. Le coperte sono per terra. Il cuscino è finito dietro alla spalliera. Sudato. Mi siedo sul margine del letto con i piedi sul tappetino finto persiano. Mi massaggio le tempie. Apro gli occhi. Mi faccio una doccia. A quest’ora di notte l’acqua non ha concorrenza e scende piena. Così va meglio. Uso il phon del bagno per asciugarmi, dopo aver rapidamente consumato le spugne in dotazione. Ci vorrebbe un bel caffè. Il frigorifero è pieno di bottigliette di bevande gasate di tutti i generi, con la terroristica avvertenza che saranno addebitate automaticamente sul conto ove siano anche solo spostate per più di cinque secondi. Meglio allora acqua. Acqua semplice. Apro la finestra. La ville lumiére, a quest’ora, o almeno da qui, è poco luminosa. Una macchina ogni qualche minuto. Ho freddo. Ricompongo il letto. Sprimaccio il cuscino. Accendo la radio. Meno male che la notte la musica è poco interrotta da voci pubblicitarie.

Me le faccio scorrere intorno con dolcezza, adesso. Una mano nella mano. Una carezza. Un abbraccio leggero. Un sorriso. Così va meglio. Sono tutte qui con me. Sono contento.

-         Te lo posso offrire io, questo? Per me un caffè, grazie.

Mi ci sono seduto a fianco, su quei trespoli da banco bar. Come in un film western di serie B, lo guardo dallo specchio che ci sta di fronte.

Sta bevendo un martini. Siamo a metà mattinata. Sono contento di vederlo. I miei ricordi vanno alla festa della santa, alle corse sulla sabbia.....

Mi riconosce subito. Il tempo di stringere le palpebre a mettermi bene a fuoco e non ha dubbi.

Il caffè è ottimo, al solito. Me lo gusto sorso a sorso. Poggio la tazzina con un “ah” contenuto eppure pieno.

-         Giorgio ........

Scuote la testa da sinistra a destra. Gli passa anche un’ombra di qualche riflesso lontano, sul viso segnato. Si gira verso di me.

Siamo uomini fatti. Siamo vecchi. Abbiamo entrambi una storia alle spalle. E’ adatto un abbraccio da rimpatriata? No. Uno scambio di sguardi vigorosi, questo si addice all’evento (siamo in un B-western, ricordate?).

-         Juanito ......

-         Che cazzo ci fai qui.......?

Questa la pronunciamo all’unisono, come se dal copione non fosse chiaro di chi dovesse essere la battuta. Così possiamo scoppiare a ridere e non darci una risposta.

E’ più grasso di quanto sembrasse dalla foto.  E’ anche meno calvo. Abbronzato. Nel fondo delle pupille è rimasto lo spunto di quell’intelligenza che acchiappava qualsiasi cosa al volo. Il tono dominante è di una forza inquieta, di un all’erta vigile e senza sosta. Mi è simpatico, come sempre.

-         Quanto tempo ...........

Anche questa potrebbe essere pronunciata all’unisono. La dice lui.

-         Eh sì, non è facile parlarsi dopo tanto tempo ..... come si fa a parlare di quarant’anni di vita ...... da dove si comincia?

Gli torna quel sorriso sornione che conosco. Con l’indice oscillante avanti e indietro verso di me:

-         Ma per te, il vulcano, era maschio o femmina?

Scoppia a ridere, dandosi una pacca sulla gamba. E’ roco da migliaia di sigarette e conclude con uno sbotto di tosse irrefrenabile. Quando gli passa, ancora ride strozzato. Gli occhi sono rossi.

-         Sai che non me lo ricordo! Comunque, avevo ragione io.

E giù a ridere; insieme, stavolta.

-         Vieni, facciamo due passi, è una bella giornata .... hai da fare?

-         Ho da fare ….. sì, ho da fare, certo che ho da fare …. ma aspetta che sistemo……..

Pago. Juanito – don Juan, lo hanno chiamato – fa cenno a due ceffi sul divano, in divisa da guardie del corpo, di stare buonini lì.

-         “Don Juan”, cazzo: sei diventato importante!

-         Ma va ..... sono amici che mi sfottono ........

Interessante: dissimula. Aspetto che dica lui qualcosa. Aspetto.

-         Io ho continuato a fare il giornalista, anche qui. Lo faccio ancora. Scrivo di natura, viaggi. E’ un bel mestiere. Mi porta in giro per il mondo.

-         Sei sempre stato un pensatore, tu ........ in qualche modo ho dovuto diventarlo anch’io ....... a volte ci troviamo a fare cose diverse da quelle che ci sarebbe piaciuto .......

-         Io sono abbastanza soddisfatto del mio lavoro.....

-         Oh anch’io ..... ho raggiunto una posizione di responsabilità, vedi che vado in giro vestito da pinguino, chi l’avrebbe mai detto ....

Sorridiamo. In effetti Juanito ha un fresco lana da sartoria perfetto, con la camicia malamente inzeppata nella cintura, a tradire l’abitudine forzata che non è mai diventata uno stile personale.

-         Stai bene, a parte un po’ di pancetta .....

Mi lascia fare. Si lascia dare un finto pugno in pancia – è il nostro primo contatto fisico da quando ci siamo incontrati – senza far scattare il riflesso condizionato di difesa che mi sarei aspettato. Come è possibile che si fidi a tal punto?

Camminiamo ancora. La voce di Jacques Brel, in perenne lotta con le sillabe che resistono alla melodia, ci raggiunge da qualche finestra. Ci sediamo sulla panchina di marmo, senza schienale, di un giardinetto di quartiere, abbastanza ampio da contenere alberi di alto fusto e uccelletti saltellanti alla ricerca di vermi per la prole affamata.

Le parole sembrano essere già finite. Com’è che non abbiamo ancora parlato di donne, famiglia, figli ....

Me lo sto chiedendo.

Mi sto chiedendo anche che cosa si sta chiedendo Juanito. Una volta bastava incontrare gli sguardi, per capirsi. Ci vorrebbe una conversazione sul tempo, sul come passi le giornate a Parigi, bella città, eh! hai visto i musei o sei andato per locali notturni?

-         Juanito?

-         Sì?

-         Senti, che ne dici, ti porto a vedere il museo di Picasso, sta proprio qui dietro ....?

-         Il museo di Picasso?

So che non posso sconvolgerlo in nessun modo. Per Juanito la vita si vive. Niente è fuori portata a priori. Questa era una delle ragioni per cui fu mio amico. Il fatto è che mi sento tuttora suo amico.

-         Sai, quando Picasso è morto, gli eredi dovevano pagare miliardi di tasse di successione ........ qualcuno ebbe la buona idea di farglieli pagare in natura.....

-         E cioè?

-         Pagarono in quadri. E Parigi ebbe un museo che raccoglie opere – non solo quadri – di tutti i periodi ..... è morto a più di novant’anni e ancora faceva figli .....

-         Picasso è quello degli occhi storti e dei triangoli?

-         Più o meno ........ vedrai ...... ti piacerà.......

-         Giorgio!

Si è fermato. Mi guarda serio.

-         Sì?

-         Giorgio, ci incontriamo dopo quarant’anni, e tu mi porti a vedere il museo di Picasso?

-         Perché no.......

-         Allora vuol dire che non sei cambiato tanto, amico mio!

Ride di gusto. Mi dà una pacca sulla spalla. Scuote la testa. Tira fuori il telefonino. Fa un numero. Borbotta qualcosa. Lo spegne. Lo ripone.

-         Bene, andiamo allora a vedere ‘sto Picasso. Come stai a donne?

Eccolo. E’ lui.

-         Donne ..... alla nostra età... come parli… donne… ancora....... in questo momento niente di importante ..... e tu, sempre una in ogni porto?

-         Ma quale? ho messo la testa a posto, sono nonno, pensa ... certo, se capita non me la faccio scappare .....

Non cerco di dissimulare il dolore in mezzo al petto che mi prende a sentire pronunciare la parola “nonno”. La mano ci va diritta.

-         Il cuore? hai guai al cuore, Giorgio?

Premuroso, come sempre.

-         Niente di grave. Ogni tanto una botta di tachicardia. Mi fermo un minuto e passa.

Ansimo, anche per la strada ripida che stiamo percorrendo in salita. Cemento a righe per non scivolare, nella parte centrale. Juanito ha preferito le scalette laterali. Si ferma. Ci si siede. Il vestito da pinguino non lo impaccia per niente. E’ lui. Mi siedo anch’io. Siamo a circa metà. In dieci minuti che stiamo lì, in tutto scende una signora con carrozzina e lattante. Siamo due vecchi. Posso mandarlo a fan culo diritto adesso e andarmene punto e basta. Posso pacatamente dirgliele tutte. Posso dirgliele tutte bene incazzato e farmi venire un bell’infarto fulminante. Posso saltargli addosso e rotolarci per le scale come facevamo da ragazzi, e arrivare in fondo con la testa escoriata, i fianchi ammaccati, il fiatone ......... Siamo due vecchi. A che serve?

-         Che cazzo ci fai qui?

Stavolta l’ha detta lui.

-         Voglio sistemare una faccenda importante. E’ tanto tempo che lo voglio fare.

-         Lavoro?

-         No. Vita.

Gli sorrido con affetto vero. In qualche modo è la sua presenza a Parigi che mi permetterà di assolvere questo compito che mi sono dato.

-         Donne allora, eh?

Ammicca fiducioso di confidenze.

-         In un certo senso ......

Deve avvertire il mio cambio di espressione.

-         ....... Qualcuna che ti ha fatto soffrire, eh?

-         Sì. Juanito. Quella che mi ha fatto soffrire di più di tutte.

-         E adesso gliela fai pagare, eh? fai bene, fai bene ....

Si frega le mani, totalmente solidale.

-         E tu, tu che cazzo ci fai qui?

Tocca a me.

-         Affari. Accompagno un personaggio importante .... sai .... gli cerco l’albergo, preparo le riunioni, faccio in modo che tutto fili liscio .....cose così ..... sono bravo ....

Bravo è bravo. Ha detto la verità senza dire niente.

-         E adesso come fa senza di te?

-         Eh, oggi se la sta spassando ...... e poi non sono solo, ho lasciato istruzioni ...... non capita tutti i giorni di incontrare un vecchio amico!

-         Siamo arrivati, è qui dietro.

Una stradina piccola, un ingresso dimesso. Il grigio è il colore di Parigi. I musei così – piccoli, raccolti, che offrono l’essenziale di un autore, o di un’epoca – li preferisco ai grandi agglomerati di tutto, nei quali regolarmente mi disperdo frastornato dal troppo.

-         Ehi, Giorgio, lo sai che non sono mai entrato in un museo? ci volevi proprio tu .... mi sei mancato .....

E’ sorprendentemente sincero. Mi appoggia le mani sul braccio. Che mi diventa rigido, al contatto. Se ne accorge.

-         Che c’è, Giorgio?

-         Troppi anni, Juanito. Troppi anni. Sono successe troppe cose. Vieni. Io ci sono stato l’altro ieri. Vieni a vedere l’Arlecchino.

Ci guarda serio e garbato, come la poltrona di velluto scuro a cui è appoggiato. L’espressione serena e inquietante, come di un bambino che sappia già troppo del mondo, e voglia entrarvi vestito così, compito, colorato di losanghe gialle e blu, e senza illusioni.

-         Ti assomiglia, Giorgio!

-         Mi stai sfottendo, che dici, dove mi assomiglia? Non lo vedi che sei tu?

-         Io? mi ci vedi vestito così?

-         Perché, adesso come sei vestito?

-         Ah cazzo! Hai ragione!

Niente da fare. Si finisce immancabilmente in vacca. Come ai bei tempi. Ha fatto un saltello unendo le due suole mentre stanno in aria.

-         Ehi, attento che alla nostra età può essere pericoloso!

Qualcuno dei pochi visitatori si è voltato verso di noi.

-         Sììììììììììììì.....????

Chiedo provocatorio agli astanti. Come ai bei tempi. Distolgono lo sguardo e tornano ai loro quadri. Una rimpatriata. Sta diventando una rimpatriata.

Juanito si è fermato davanti alla riproduzione di Guernica. E’ colpito.

-         L’originale sta a Madrid. E’ il risultato del primo bombardamento a tappeto, il primo della storia, su una città senza obiettivi militari. Pensa: centinaia di aerei che passano in file serrate sopra una piccola città e sganciano migliaia di bombe tutti insieme. Se vivi lì non hai scampo. Se non ti colpisce direttamente una scheggia, ti crolla addosso la casa. Oppure muori per mancanza d’aria: il calore delle esplosioni se l’è portata via tutta e ti bruciano i polmoni.

-         Come andò? certo che la razza umana ne ha fatte di cose pessime, eh!

-         Vieni, Juanito, c’è un quadro soprattutto che voglio mostrarti.

E’ al piano di sopra. Ci pigliamo un caffè nel bar interno. Non è all’altezza delle opere esposte. Fa schifo, per dirla tutta.

-         Bello, questo mi piace. Come s’intitola?

Si piega a leggere la scritta sul plexigas in basso a destra. I due fratelli. Avanzano dal centro dello sfondo rosso mattone. Allo loro destra una ciotola appoggiata su un tamburo. A terra un vaso di fiori. Sono nudi. Magri. Sono due ragazzi. Il più grande – potrà avere dieci, undici anni - porta sulle spalle il più piccolo. Questi - quattro, cinque anni forse – si tiene con le manine grosse intorno al collo del fratello, che a sua volta gli sostiene le gambe avvolgendolo con le braccia che si richiudono dietro alla schiena.

-         Sai Juanito, ci vedevo così, noi. Tu ed io. Quello sotto posso essere io o puoi essere tu. Intercambiabili. L’uno può contare sempre sull’altro. Mi sentivo sempre al sicuro, con te, dovunque fossimo. Sapevo di poter contare su di te...... aspetta, fammi finire ..... che se avessi avuto bisogno tu ci saresti stato. In qualsiasi momento. Se ti avessi chiamato tu saresti accorso. E così avrei fatto io.

Mi costa molto dire queste cose. Le ferite sono tutte aperte come fosse ieri.

-         E’ stato così, Giorgio. Tu tante cose non le puoi sapere.

-         Tu me le vuoi dire?

Resta come senza fiato. Si appoggia alla parete. Scatta l’allarme. Interviene la custode. Juanito si scusa. Quella insiste a fare la paternale e allora le sibila a muso duro ho capito cazzo ho capito adesso piantala brutta figlia di puttana. In spagnolo. Quella incassa impettita e si ritira imbronciata alle sue parole incrociate.

-         Ti ricordi, alle isole, che tu volevi scrivere un articolo sui contrabbandieri?

-         Certo che mi ricordo.

-         Ti ricordi che io sono salito sul peschereccio, mentre tu sei rimasto in barca, sotto?

-         Sì, mi ricordo bene.

-         Sopra c’era uno dei capi del Partito della Giustizia .......

-         Quello con il Borsalino in mezzo al mare? Sì; me lo ricordo ..... Antonio des ....qualcosa…

-         Sì, era lui. E’ stato lì che ti ho salvato.

Nel frattempo siamo usciti dal museo.

-         Mi hai salvato, Juanito? Tu mi hai salvato? Da che cosa mi hai salvato?

-         Che è, fai finta di non capire? Volevano prendere anche te. Eri nella lista. Mi sono fatto dire – non voleva - quando avrebbero agito, e t’ho tenuto alle isole fino al giorno dopo, con la scusa della tettona che non me ne fregava un cazzo di niente!

-         Mi hai salvato, allora, Juanito, è così?

-         Sì. Ti ho salvato.

-         Vediamo se capisco bene: stanno – state – preparando un colpo di stato. Tu sei tra quelli che lo preparano. Tu sei mio amico. Non mi dici niente del colpo di stato – devi essere solidale con i tuoi, si capisce – però fai in modo di non farmi prendere. E’ così? Ho capito bene?

-         Anche quando stavi all’ospedale dalla zia Renata, ti ho salvato. Lo dissi io, a Don Isidoro, di farti scappare. Ho rischiato, per questo. Ho rischiato di brutto, Giorgio, che ne sai tu.

-         Quindi, dovrei ringraziarti, quanto meno?

-         Eri mio amico. Che c’entrano i ringraziamenti?

Siamo sulla via del ritorno. Sulla strada ripida dritta, solo pedonale, metà ad asfalto zigrinato e metà a scalette, dove all’andata ci siamo seduti. Ci sediamo anche adesso.

Il letto era all’angolo della stanza. Allora mi piaceva dormire tutto tappato, serrande abbassate, porta chiusa e casomai testa sotto al cuscino. Mi svegliai. Nessun rumore intorno. Notte fonda. Ero girato sul fianco destro, verso la parete. Una presenza alle mie spalle. Di fianco al letto. Ne vidi l’ombra sul muro verso il quale ero girato. Non era possibile che ci fosse un’ombra, con quel buio. Questo lo sapevo. Non potevo accendere la luce. Non potevo aprire la porta. Non potevo girarmi. Non potevo chiudere gli occhi. Non mi potevo muovere. Potevo pensare di aprire la bocca ma sapevo, che se anche il comando fosse arrivato e la bocca si fosse aperta, non ne sarebbe uscito alcun suono. L’essere alle mie spalle stava soltanto lì. Non ho mai avuto un terrore così gelido nella vita. Non percepivo alcuna minaccia esterna concreta. Nemmeno la presenza dietro era minacciosa. Era la mia paralisi ad agghiacciarmi. Potevo essere preda di chiunque. Non bastava essere all’erta. Non bastava rendersi conto. Non bastava che i muscoli fossero tutti tesi, pronti a scattare. Producevano inutile acido lattico e dolorosi crampi.

Passò. Forse mi riaddormentai. Forse non mi ero mai svegliato. Ma i sogni non si ricordano così bene, di solito. Non ebbi, non ho, il ricordo della fine di quella esperienza. Ne fui molto turbato. Lo raccontai a Nadia. Rinunciò presto alle sue spiegazioni esoteriche. Mi propose di sederci sul divano. Accese una candela sotto a un lumicino con il profumo di bergamotto. Quello scricciolo forte mi prese tra le braccia, mi dondolò, mi carezzò la testa, e mi tenne stretto finche non ebbi smesso di singhiozzare.

-         Què pasa?

-         Niente, Juanito, strani ricordi......

-         Emma?

Ha esitato, prima di pronunciare questo nome. Fa il gesto di poggiarmi la mano sul braccio ma ci ripensa.

-         Emma, dici ........ Emma è morta.

Sono  sereno.

-         E’ stata una disgrazia, Giorgio. Per me Emma era più di una sorella, tu lo sai.

Il dolore che gli traspare sembra vero. E che motivi ho di dubitare che gli sia dispiaciuto, che ne abbia anche sofferto? E allora? Che cosa cambia?

-         Una disgrazia, dici .........

Si è appoggiato con i gomiti sullo scalino più alto, dietro. Da sotto l’ascella sinistra è ben visibile il calcio di una pistola.

-         Sai, Juanito, potrei farlo per Emma, per nostro figlio, che non ho potuto conoscere, per lo zio Raffaele, per la zia Renata, sì, anche per la zia Renata, per Isidoro, e per i mille altri che avete ammazzato.....

Sta rantolando. L’ombra sulla parete buia è scomparsa. C’è luce a sufficienza. Mi sono ricordato la scena di un film di gangsters. Ho aspettato che avesse emesso l’ultimo alito di fumo dalla tirata di sigaretta. Gli ho piantato con tutta la forza una gomitata alla bocca dello stomaco. Si è sporto in avanti annaspando, privo di aria. Gli ho circondato il collo con tutto il braccio destro, da dietro, e ho stretto più forte che ho potuto. Mi sono aiutato anche con il braccio sinistro. Sto ancora stringendo.

-         ..... Ma è soprattutto per Pedro, sai? Te lo ricordi, lo scemo al quale vi divertivate a sfilare la cintura del cappotto? è per lui, Juanito, è per quelli come lui, Juanito, ricordatelo.

Batte i piedi a vuoto. Solo per poco ancora. E’ stato facile.

E’ stato facile.

Faccio proprio come avevo pensato.

Prendo il primo volo, senza nemmeno ripassare per l’albergo.

All’arrivo: un taxi e a casa.

Mi preparo lo zaino.

Una doccia. Una bella dormita. Una bella, lunga dormita.

La mattina presto un bel caffè e partenza per la faggeta.

E così, eccomi in cima. In questa bella giornata di sole calante. Nudo. In questo giaciglio morbido che mi ripara dal vento, mentre mi addormento.

 


Ringrazio: (torna all'indice)

l’autore, argentino, di cui mi rammarico di non aver a suo tempo trascritto il nome, della “lettera aperta agli uccisori di mio figlio”, che lessi su “Il Manifesto”, e da cui sono tratti - rielaborati a memoria – alcuni brani nelle ultime pagine del capitolo “Monsignore”;

le amiche, gli amici, che hanno letto (e talvolta, pazientemente, riletto) i diversi stati di avanzamento, per i loro preziosi feedback e incoraggiamenti;

i miei due meravigliosi figli - Marco e Giordano - che, a differenza del protagonista, ho la fortuna di aver visto nascere e crescere;

Pippo: unico, tra chi è vissuto e vive nella realtà, a poter essere legittimamente identificato in qualcuno dei personaggi di “Giorgio” (in Broc, naturalmente), per avermi insegnato ad amare i cani.

E, inoltre:

la caccia alla volpe dal castello del Principe Altieri, ad Oriolo Romano, è davvero descritta nel libro che è citato nel capitolo “La Principessa”. La “buona amica”, che lo ha trovato per me, è molto di più di una buona amica.

Giuditta e Oloferne: le rappresentazioni che, a mano a mano, appaiono a Giuditta che racconta, sono tratte, nell’ordine, da:

·        Affresco nel Palazzo Martinetti Bianchi. Chieti.

·        Michelangelo. Particolare della Cappella Sistina. Roma.

·        Cristoforo Allari. Palazzo Pitti. Firenze.

·        Johann Liss. Museo di belle arti. Budapest.

·        Donatello. Statua in Piazza della Signoria. Firenze.

·        Botticelli. Oloferne. Galleria UFFIZI. Firenze.

Altre (Caravaggio, Artemisia, Klimt), sono citate esplicitamente nel capitolo “Ximena”.

Chissà se, prima o poi, potrò soddisfare la curiosità di vederle tutte in una mostra tematica, insieme con le tante altre che, nei secoli, gli artisti più diversi hanno realizzato.

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